“You are non anybody in America unless you are in tv” dice Suzanne Stone/Nicole Kidman in una delle sue autointerviste, guardando dritta in camera, in Da morire, il film con cui nel 1995 Gus Van Sant cerca la via della riconciliazione con il cinema mainstream dopo il fallimento di Cowgirl - Il nuovo sesso (1993). Ed è proprio a To Die For (era il titolo originale) il film cui fa pensare più da vicino questo Dead Man’s Wire, presentato a Venezia Fuori Concorso (sic!) in occasione della consegna del Premio Campari alla carriera al regista di Louisville, da sempre abituato a mutare forme produttive, linguaggi, universi di riferimento.
Anche in questo caso non è lui a scrivere il film; la sceneggiatura di Austin Kolodney prende le mosse da un fatto di cronaca che ricostruisce con grande precisione e fedeltà proprio a partire dalle molte immagini che ci sono di quei fatti. Le stesse immagini che Van Sant inserisce alla fine del film, come ormai è abituale fare quando la scritta iniziale annuncia che si è al cospetto “di una storia vera”. Una formula ormai routinaria questa che cerca legittimità nella sua presunta relazione con il reale, come se il cinema fosse una questione di “verità”. E Van Sant ci sta, ci si diverte con questo gioco che mette all’inizio e alla fine di un film con il quale poi - proprio come Da morire - chiama in causa un’infinità di questioni, sociali, politiche, mediatiche, calandole negli anni Settanta (la vicenda risale al 1977) ma facilmente rieleggibili nella contemporaneità.
Così lo spettatore si appropria della storia di Tony Kiritsis, che, entrato in pieno giorno nella società di prestiti che considera responsabile della fine del suo sogno imprenditoriale, sequestra in diretta tv il figlio del boss tenendolo poi in ostaggio per giorni nel suo stesso appartamento, tra telefonante di sconclusionate trattative, pretese di relazione diretta con i media e, sopratutto, richieste di scuse pubbliche e ammissione di condotta disonesta da parte della società; il tutto tenendogli un fucile puntato in faccia sempre pronto a sparare grazie al filo che lo tiene fissato intorno al suo stesso collo: il filo del morto, appunto. Cosa altro è, in fondo, la vita se non una questione di relazione con la morte?
Lo dice da sempre Van Sant, in ogni suo film, qualunque forma o confezione gli abbia dato. E qui di confezione ce n’è e di quella di cui si può prendere tutto il piacere a cominciare dal cast e dallo sgangherato Kiritsis cui Bill Skarsgård dà una prestanza scenica goffa e irresistibile, divertente e struggente allo stesso tempo. Un’entrata in scena che dalla prima inquadratura fa pensare in qualche modo a Quel pomeriggio di un giorno da cani e proprio a quell’Al Pacino che qui, vecchio e immobile, dà corpo al mefistofelico patriarca M.L. Hall, patron della società di prestiti e padre spietato dell’ostaggio interpretato da Dacre Montgomery.
A differenza di Suzanne, però, Tony non ha bisogno della televisione per esistere, per costruire una sua identità, ha bisogno dei media per avere, finalmente una voce; e proprio per questo mira alla diretta telvisiva ma sceglie un dj radiofonico nero e dalla voce suadente (Colman Domingo) per essere ascoltato, per avere attenzione, comprensione, risarcimento. E così, mentre si invaghisce - come fece l’America tutta, incollata davanti alle dirette televisive che collegavano improvvisamente la sonnolenta Indianapolis in diretta nazionale (interrompendo addirittura John Wayne) - dello scombinato ribelle Kiritsis e della sua presa di posizione contro l'ingiustizia che sente di aver subito, contro lo strapotere del capitale, contro l'infrangersi sitematizzato del sogno americano, lo spettatore si trova davanti a una costruzione di scatole cinesi, di immagini nelle immagini, di dispositivi che moltiplicano (in digitale prima del digitale) gli sguardi, le narrazioni, i punti di vista e innescano un cortocircuito - come Van Sant ama e sa fare - di rappresentazione, mediatizzazione, cannibalizzazione che mette in discussione l’intero sistema sociale più ancora che quello mediatico.