Sotto l'egida del National Geographic, il che è già una garanzia a prescindere, Werner Herzog ci propone uno dei suoi documentari più suggestivi, a illuminare il suo contemporaneo e meritatissimo Leone alla Carriera.
Seguendo l'attività dell'antropologo Steve Boyes e del suo progetto-sogno, il “Buon Soldato del Cinema” (parole sue) si lancia alla ricerca di giganteschi elefanti che mai nessun uomo ha visto e che dovrebbero vivere in Angola, su un altipiano (1200 metri) grande come l'Inghilterra e chiamato per la sua piovosità, fondamentale per l'equilibrio idrico della Terra, la Torre dell'Acqua. Ovvero la culla di enormi fiumi, tra cui il Congo e lo Zambesi. Li troverà?
La missione aldilà del suo aspetto esplorativo romantico (quella porzione di pianeta è disabitata, anche se brulicante di flora e fauna, anzi: 200 nuove specie saranno scoperte lì nell'occasione), vuole verificare una ipotesi scientifica. Raccogliendo campioni di DNA, scoprire se quei pachidermi fantasma sono (o potrebbero essere) gli eredi di Henry, a oggi il più gigantesco animale terrestre mai visto, impallinato nel 1955, i cui resti sono conservati allo Smithsonian di Washington.
Con Boyes (che continuamente si chiede “forse è meglio se resti un sogno”, “restare un sogno o diventare un ricordo?”), partecipano un team scarno di antropologi, più tre tracciatori boscimani San, dalla Namibia, i migliori a leggere le tracce degli animali (come un giornale), più altri angolani esperti conoscitori della zona.
Ovviamente preciso nella parte scientifica, il film si eleva seguendo le visioni e le intuizioni di questo “cineasta fisico e camminatore instancabile” (Alberto Barbera). Tra panorami che paiono viaggi nel tempo verso l'alba della creazione e cieli straboccanti di stelle, Herzog si estasia seguendo tanto la “leggerezza” (ebbene sì) degli elefanti in riprese sott'acqua mentre guadano stagni e fiumi quanto la meraviglia del minuscolo degli scarabei stercorari indefessamente all'opera. A trasformare il documentario in una progressione di emozioni spirituali, provvede poi anche una colonna sonora colta e articolata, che fluttua tra elettronica, cori sardi, canti tribali, strumenti antichissimi e suggestivi.
Herzog e Boyes fanno qui l'esempio di Moby Dick come analogia di storia di una ricerca decennale che si fa ossessione, ma con la differenza che questa concorre a creare nuove dimensioni di una diversa e armoniosa interrelazione tra uomo ed ecosistema.
Come in altri capitoli dell'ingente filmografia dell'autore, ormai più votato al documentario in zone limite della geografia e dell'umana conoscenza (Grizzly Man, Into the Abiss, The Fire Within) che non alla fiction cui pure ha regalato gemme indistruttibili della cinematografia dagli anni '70 (Aguirre furore di Dio, Nosferatu, Fitzcarraldo), anche questo mescola etnologia, antropologia e incontro tra culture, con momenti di grande impatto visivo, compreso (purtroppo) un terribile inserto tratto da Africa addio (1966) di Jacopetti e Prosperi che ci mostra un inutile e schifoso massacro di elefanti con l'aiuto persino di elicotteri.
Dalla realizzazione di un letalissimo veleno da larve di insetti che impregna le frecce dei cacciatori boscimani, alle loro danze capaci di portare sino alla trance, a un incontro tanto bizzarro quanto di estrema dignità con il re di una tribù angolana, custode in qualche modo, anche con i suoi miti, della preservazione degli elafanti, cui siamo più legati di quanto non sospetteremmo.