Concorso

L'étranger di François Ozon

focus top image

Attenzione a non versare una lacrima al funerale della propria madre, si rischia la condanna a morte. Ammoniva più o meno così Albert Camus nella prefazione all’edizione americana de Lo straniero, e l’assenza di empatia del protagonista, la sua non adesione al sistema di reazioni previste dal consesso civile in casi di lutto, obiettivamente un tratto psicologico problematico, continua a essere parte sostanziosa del film che ne ha tratto François Ozon. Il progetto iniziale doveva essere tutt’altra cosa, un film in tre episodi ambientato nella contemporaneità, dove compariva un personaggio disilluso, senza connessioni con il mondo e senza uno scopo nella vita per il quale era già previsto Benjamin Voisin. Il libro di Camus, scritto a partire dal 1938 e pubblicato nel 1942, doveva essere più che altro un testo di appoggio per lavorare alla costruzione del personaggio, ma è diventato presto il soggetto da trasporre cinematograficamente, con Ozon stupito del fatto che nessuno ne avesse opzionato i diritti dopo la trasposizione non particolarmente riuscita di Luchino Visconti del 1967, con Marcello Mastroianni nel ruolo principale. 

Nell’adattamento ozoniano, scritto in collaborazione con Philippe Piazzo, sostanzialmente bipartito come il romanzo, convivono due anime, una palese e una latente. Quella palese è l’illustrazione fedele della vicenda, senza falsi imbarazzi generati da una puntuale adesione alla struttura testuale, sullo sfondo di una ricostruzione il più possibile scrupolosa della colonia francese d’Algeria, dettagliata da costumi e elementi di complemento in perfetta continuità con il brano di actualité Gaumont che funge da prologo. Quella latente è tracciabile proprio a partire dal cinegiornale iniziale, che certo non ritroviamo nel testo camusiano e però documenta con la retorica tipica degli anni ’30 il picco della colonizzazione francese in Algeria, l’idealizzazione di questo pezzo di Francia, speculare rispetto alla Métropole, e si conclude con un’inquadratura di indigènes che guardano in camera, interpellando lo spettatore; un’interpellazione che passa anche attraverso la vitalizzazione di due personaggi che sulla pagina non hanno altrettanto rilievo, Marie (Rebecca Marder), la fidanzata del protagonista, e soprattutto Djemila, l’amante del vicino di casa, sorella di Moussa (Abderrahmane Dehkani), il ragazzo ucciso da Meursault sulla spiaggia. In un dialogo tra le due, rapido ma incisivo, nell’aula del tribunale ormai deserta, la giovane algerina denuncia l’invisibilità del fratello, la sua sostanziale sparizione dal discorso processuale: alla sbarra c’è un uomo bianco che non ha pianto la morte della madre, nessuno è lì per giudicare l’assassino di un ragazzo arabo, “tornate a casa vostra!” “siamo a casa nostra”. Una linea latente che si aggancia all’inquadratura conclusiva del film, con Djamila sulla tomba del fratello esposta a occidente, altra invenzione extra-letteraria, un seme piantato, le prime braci di un discorso che divamperà incontenibile con la guerra, tra il 1954 e il 1962. Sebbene Camus stesso, che pure già nel 1945 dichiarava posizioni anticoloniali, abbia a più riprese sottostimato se non negato la relazione tra quanto è al centro del suo romanzo e le tensioni che porteranno alla lotta per l’indipendenza algerina, Ozon sa di non potersi permettere, nel 2025, sulla scorta di un pensiero già condiviso trent’anni fa da Edward Saïd, di sorvolare sul tema dell’invisibilizzazione dell’arabo, delle forme più o meno striscianti di razzismo della società francese in Algeria (per non chiamarlo esplicitamente apartheid), e lo fa a modo suo, nell’anno in cui oltretutto ricorrono i cento anni dalla nascita di Frantz Fanon, psichiatra e teorico della decolonizzazione, facendo convivere sullo schermo le tracce di un’antitesi al discorso di Camus che non lo smantella, ma tutt’al più lo arricchisce. 

Quasi rovesciando il discorso sulla psicologia del colonizzato, dell’oppresso, delineato da Fanon, il Meursault di Ozon porta sul corpo l’aspetto somatizzato del proprio sradicamento, della propria apatia, e lo fa nella postura e nello sguardo. Se nel romanzo la vicenda è interamente narrata in soggettiva, con l’altro che sulla carta è spesso fuori fuoco, quando non addirittura elemento stilizzato dello sfondo, la costruzione cinematografica del punto di vista di Meursault limita la soggettiva pura e semplice, e si concentra piuttosto sull’oggettiva impenetrabilità del suo protagonista; se sulla pagina al discorso diretto dell’altro il protagonista risponde quasi sempre col discorso indiretto, in scena è il suo silenzio, la sua reticenza ad accumulare senso, depositandolo sui lineamenti fotogenici ma irregolari di Benjamin Voisin. Quest’ultimo potrebbe essere giudicato, soprattutto dallo spettatore fresco di lettura, come uno svarione di casting, proprio perché la soggettività dell’io narrante lascia la massima libertà di interpretazione; ma non è affatto scontato proiettare un’immagine da travet mediocre e magari anche malvestito nel personaggio di Meursault: proprio la presenza scenica di Voisin, il suo corpo allenato, coerente con quello di una persona che la domenica non rinunciava ad andare al mare per mettersi su un autobus e andare a visitare la madre all’ospizio, è un ingombrante indizio di alterità, di grafica estraneità rispetto al contesto, fin dall’apertura, quando viene scaraventato in una cella comune piena di indigènes che hanno una dimestichezza diversa con quello spazio. È il corpo di un narratore che resiste ad aprirsi alla propria stessa narrazione, un ruolo gestito da Voisin con una fatica doppia, accogliendo il suggerimento da parte di Ozon di leggersi per bene le Note sul cinematografo di Robert Bresson, per rinunciare agli aspetti di performance e avvicinarsi a una verità essenziale, esistenziale; un personaggio che, per rimanere tra i ruoli importanti ricoperti dal giovane attore francese, è sostanzialmente l’antitesi del Lucien de Le illusioni perdute di Giannoli, completamente proiettato nelle aspettative. Il nome di Bresson non può non riecheggiare anche nel dialogo finale con il cappellano della prigione (Swann Arlaud), messo in scena quasi come il fallimento di un esorcismo laico più che di una confessione, l’invocazione del pentimento e del perdono da parte del sacerdote contrapposta all’assunzione assurdamente eroica delle conseguenze di un atto sottratto alle coordinate dell’etica dall’altra, due prospettive antitetiche che non si comprendono, che si sfiorano e si scontrano nell’immagine senza capirsi, due stranieri.