Concorso

The Testament of Ann Lee di Mona Fastvold

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Credo sia indispensabile sollevare la polvere dei secoli (come direbbe Pig-Pen, filosofico personaggio collaterale degli indimenticabili e, loro sì, davvero paritari Peanuts) dalle numerosissime figure femminili che l’hanno popolata, animata e vitalizzata senza che mai ne venisse riconosciuta, se non la grandezza, almeno la creatività e l’originalità. Ma non tutte le eroine, come non tutti gli eroi, sono necessariamente positive, e il piedistallo dell’eccezionalità e del martirio è alquanto instabile e ambiguo.

Con il suo film (scritto insieme al compagno Brady Corbet) Mona Fastvold ha deciso di raccontare la storia di Ann Lee, la figlia di un fabbro di Manchester che nella seconda metà del Settecento, ventenne, aderì a una setta di Quaccheri che venivano definiti Shaking Quackers, per poi sviluppare una propria visione mistica e trasferirsi con alcuni seguaci e famigliari negli Stati Uniti, nello stato di New York, dove fondarono la loro prima comunità di Shakers, che pregavano cantando e producendosi in movimenti estatici, danzanti, rumorosi e tremanti.

Una delle poche leader religiose di quell’epoca, le cui profezie, per quanto inverosimili, hanno attratto Mona Fastvold perché, ha detto l’autrice, «riconosco in lei un desiderio di giustizia, trascendenza e grazia per tutti. La sua radicale ricerca di un’utopia costruita con le proprie mani è segno dell’impulso creativo al centro di ogni sforzo artistico: l’urgente necessità di dare nuova forma al mondo. Ogni disciplina è caratterizzata dalla stessa aspirazione: la ricerca di momenti di grazia. Questo film è offerto come tributo al suo sogno e al silenzio che ora lo circonda». Duro lavoro e castità erano i due elementi fondamentali che avrebbero condotto gli adepti al paradiso; la parità di tutti era indispensabile, la guerra bandita, la semplicità un obbligo (infatti degli Shakers oggi resta soprattutto traccia nei pezzi di arredamento che, da abili falegnami, fabbricavano con le loro mani, anticipatori del minimalismo). 

Detti così, principi magnifici; ma lo scivolone nel fanatismo estremo, a partire dall’astinenza sessuale indispensabile perché si affermi il regno di Dio e da quella sorta di estasi drogata che animava le preghiere collettive degli Shakers, è dietro l’angolo. Come per qualsiasi religione. Non sono in grado di entrare nel merito di un giudizio e una disquisizione di carattere teoretico; e mi limito a osservare che gli Shakers e Ann Lee meritano tutto il rispetto e il sospetto dovuto a qualsiasi movimento o setta religiosa. Ma credo anche che, per quanto affascinante possa essere la purezza delle sue idee e per quanto colpevole sia il silenzio intorno a quella che i seguaci consideravano la metà femminile di Dio, un film debba in qualche maniera inquadrarne tutte le sfaccettature.

Per quanto affermi di non condividerne gli ideali, Fastvold nel suo film “santifica” Ann Lee, la rende eroina assoluta, senza macchia, messianica. Immersa nella bellezza e nella pulizia di una scenografia, di volti, costumi, capelli del tutto falsi; non c’è fango in questa Manchester settecentesca, non c’è dolore se non (almeno fino al finale) quello erotico, i bambini sono tutti biondi, la filanda nella quale lavorano non è lurida, il 70mm esalta la bellezza e l’eleganza delle danze religiose, tutto risplende intorno al viso di Amanda Seyfried, il buio che la circonda (quasi sempre, sono poche e più che altro campestri le scene in esterno giorno) è come illuminato dalla luce che emana dal suo viso e dalle candele intorno a lei.

L’operazione è molto ambiziosa, Kubrick è evidentemente il nume tutelare di certi interni e certi primi piani e certe luci (e forse anche certe danze e movimenti di macchina), ma il modello più prossimo è Les Misérables, musical e film di Tom Hooper, e non solo per la comune presenza di Seyfried e perché anche The Testament di Ann Lee è, alla sua maniera, un musical, ma soprattutto perché insegue l’Arte con la A maiuscola ma si ferma al kitsch. Solo che Les Misérables era consapevolmente, trionfalmente kitsch (come i bei musical sanno essere), mentre il film di Fastvold esige un’attenzione, una valutazione, un pensiero più profondi. E pretende di stare su un gradino superiore. Vuole essere opera d’arte a ogni costo e diventa invece una rappresentazione alquanto violenta di un movimento all’apparenza non violento.

Un film violento nelle sue affermazioni categoriche e soprattutto nella forma, che spande a piene mani i richiami pittorici alti e/o sacri e affoga nella finzione. Obbliga lo spettatore ad estasiarsi nella bellezza, fa dei numeri musicali momenti di astrazione programmata, ma non osa mai la vera, sfrontata provocazione, richiede di godere del bello e del puro riproposti in salsa lucidatissima e dilatata. Azzera il pensiero, non solo quello critico, ma anche quello estetico. Sta tutta qui la violenza e la mancanza di rispetto per gli spettatori.