Militante e poeta. Emblema del “nuovo cinema africano”. Autore di opere fondamentali, soprattutto tra gli anni '80 e '90, come Yam Daabo (La scelta, 1987) e Yaaba (Nonna, 1989), come Tilaï (1990) e Samba Traoré (1992), come Kini & Adams (1997) Punto di riferimento di tanti cineasti, per la capacità di raccontare l'anima del suo Paese (Burkina Faso) e di tutto un continente, la storia e il mito, di denunciare tradizioni criminali e moderni opportunismi e stupidità, con uno stile e un linguaggio capaci di imporsi nel mondo dei festival, del cinema internazionale, dei canali televisivi (poco in Italia, a dir la verità, se si esclude il solito “Fuori orario”).
Idrissa Ouédraogo è morto questa mattina, domenica 18 febbraio, all'età di 64 anni. Era nato a Banfora nel 1954 e aveva esordito nel 1981 con un cortometraggio, Poko, che raccontava la morte di una donna incinta per colpa dell'ospedale troppo lontano. Più tardi si troverà a denunciare la pratica della mutilazione genitale femminile, ma anche la violenza contro le donne, anche la lotta troppo tiepida dei governi africani contro l'Aids.
Ma Idrissa Ouédraogo dal cinema voleva molto di più (e al cinema in effetti ha dato tanto di più):
«Perché l'Altro, perché il Francese ha difficoltà a conoscermi davvero? Perché tutto ciò che vedevo alla televisione era ciò che di più negativo c'era in Africa, dei ritratti davvero disgustosi, la fame, la sete, le guerre, le malattie, come se non ci fosse che questo. Certo, la povertà e la miseria esistono nel continente, ma per me il cinema era al di là di questo ritratto. C'erano dei grandi sentimenti umani di cui bisognava parlare. E su questo terreno, tutti gli uomini si assomigliano e possono conoscersi. Forse dovevo provare a fare dei film in cui ci fossero altre cose oltre ai clichés della fame, della sete, della malattia, con un po' di risate, un po' di cuore, un po' d'amore, un po' di tutti questi grandi sentimenti» (da un'intervista di Claude Forest per "Africultures" dello scorso ottobre)
Favole morali (non moraliste) e storie eccentriche e surreali, opere che giocano coi generi, con quel suo stile essenziale fatto spesso di inquadrature fisse, di geometrie rigorose, di una bellezza non folkloristica, di invenzioni anche un po' matte. Senza badare troppo al mezzo (soprattutto negli ultimi anni), dedicandosi anche alla produzione, spaziando tra cinema e tv, documentario e film didattico, cortometraggio e web-serie, compreso il celebre episodio dei bambini che inseguono un fantomatico Bin Laden nel film collettivo 11 settembre 2001. Sempre raccontando gli ultimi, gli esclusi, i non allineati.
Il cinema di Ouédreago è quello che rifiuta il paternalismo del “nord culturale”, che nel cinema africano cercava un'autenticità “popolare”, “artigianale”, per proporre invece film maturi anche dal punto di vista tecnico e autoriale («È finito il tempo dei nostri balbettii»). Rifiutando però qualsiasi tentativo di colonizzazione dell'immaginario africano:
«Ci sono sempre più serie televisive che sono importanti nella vita della gente, e se non le facciamo, ciò significa che consumeremo molte cose estranee alla nostra cultura, al nostro immaginario, e questo creerà una grande catastrofe, l'impossibilità di riflettere su noi stessi. Il cinema e l'audiovisivo si uniscono per colonizzare il mondo; non più con i fucili, ma con le immagini. E già in molte capitali vedi come la gente cammina o come si comporta, sotto l'influenza delle serie televisive brasiliane e americane. Dunque, il male è questo, e ci sono molte immagini che dobbiamo creare noi e per noi».