Lo scorso 25 aprile è morto all'età di 62 anni Laurent Cantet, uno dei maggiori registi del cinema francese contemporaneo. Ripercorriamo qui per frammenti la filmografia di un autore tra i più capaci di raccontare la nostra società attuale.
Prima di esordire nel lungometraggio con Risorse umane, Cantet gira due corti in cui già si intuiscono molti dei presupposti che saranno del suo cinema. Sia in Tous à la manif (1994) che in Jeux de plage (1995) è intorno alla relazione padre-figlio che si sviluppa la narrazione. Due relazioni diversamente complicate che hanno in comune l’idea di un affetto - più o meno disfunzionale ma molto umano - che passa per il tentativo da parte dei padri di mantenere il controllo sulle vite dei ragazzi che si affacciano all’età adulta. Dispotico il primo, ambiguamente complice il secondo, i due padri affrontano con difficoltà i tentativi di emancipazione dei due figli che a loro modo provano a divincolarsi da quei legami per provare a dare forma alla propria autonomia. L’uno sognando di prendere parte ai primi rudimenti di una battaglia politica che possa corrispondere a una rivoluzione personale, l’altro nel puro, liberatorio godimento di una spensieratezza giocosa e vacanziera, Serge e Eric lottano a loro modo per affermarsi e affrancarsi. Attraverso le loro piccole storie diametralmente opposte per contesto e per soluzione, fin da subito, Cantet, sperimenta la misura del suo sguardo stando attaccato ai corpi e ai volti di quegli attori-non attori e soffiando dentro alla finzione il disagio e la vitalità del reale. (Chiara Borroni)
Les Sanguinaires, quattro isole rosse, di porfido scuro, al largo di Ajaccio, il nome che deriva da come la luce al tramonto riverbera sulla roccia, ma che a ben altro sembra alludere, lungo tutta la durata del film. È il pre-esordio di Laurent Cantet, invitato a realizzare un tassello per una serie dedicata dal canale franco-tedesco Arte alle aspettative per l’imminente arrivo del 2000, ed è evidentemente un riconoscimento implicito per lui, convocato con 2 soli corti all’attivo, a comporre un coro internazionale con altri registi, tra cui Tsai Ming-liang, Hal Hartley, Romuald Karmakar, Abderrahmane Sissako, Walter Salles e Daniela Thomas. Scrive insieme a Gilles Marchand una sceneggiatura dove i personaggi non hanno niente di straordinario, se non il fatto di essere dei parigini che hanno accettato l’invito di François (Frédéric Pierrot) a trascorrere il passaggio al nuovo millennio lontano dall’isteria che lievita sensibilmente in città. Niente di meglio che qualche giorno con le famiglie su un’isola delle Sanguinarie, senza telefoni, radio o televisione, accolti da un asino e da Stéphane (Jalil Lespert). Ma il pragmatismo istintivo e muscolare di quest’ultimo finisce presto per scontrarsi con l’atteggiamento intellettuale di François, che vorrebbe essere rousseauiano e invece è intrinsecamente padrone e colonizzatore. Uno degli episodi invecchiati meglio della serie: il 2000 era un futuro prossimo, ma continua a non essere tanto lontano dal presente. (Alessandro Uccelli)
È di fatto l’esordio di Cantet, che vince un César e un Louis-Delluc per la miglior opera prima con un film soffocante, nel quale la lotta di classe è avvolta in risonanze edipiche. Un confronto tra padre e figlio originato dall’affetto, dall’orgoglio di ogni operaio che vuole il figlio dottore, che si ritrova catapultato nella spietata logica di un riassetto industriale che abbatte, umiliandola, la generazione precedente. Il tutto in equilibrio sul filo sottile di un paradosso, quello per cui dimostrare la propria realizzazione sociale tramite l’affermazione del figlio provoca la cancellazione dal tessuto produttivo. Perché si può avere lo stesso sangue ma appartenere a due classi differenti. In questo la tragedia allestita da Cantet supera il concetto di classicità e diventa ironicamente moderna. Un moderno tuttavia non più attuale, in questo preciso momento storico, benché una certa produzione francese (Brizé, Gravel, Carrère regista), insieme a ciò che resta di Ken Loach, sia tra i pochissimi a porsi ancora il problema. In Risorse umane gli operai vivono ancora in simbiosi con le macchine su cui lavorano, considerandole un po’ anche loro. Sono trascorsi solo 25 anni ma pare un’era geologica, perché i proletari, esseri mutanti, sono ora diventati riders e corrieri, ma Sofocle continua a blandire Marx nel suo drammatico abbraccio. (Giampiero Frasca)
Il 9 gennaio 1993 Jean-Claude Romand sterminò la famiglia che aveva ingannato per una vita intera, dopo averla indotta a credere di essersi laureato in medicina decenni prima e di lavorare come medico all’OMS. Con Robin Campillo, co-sceneggiatore e montatore del film, Cantet si ispira assai liberamente a questo atroce e surreale fait divers (che ispirerà anche un bel film di Nicole Garcia), eliminando l’aspetto patologico e mostruoso e privilegiando soltanto la doppia vita e l’attitudine sistematica a mentire di Romand, che diviene Vincent, un consulente d’affari licenziato dalla sua azienda e quindi deciso a inventarsi un’esistenza immaginaria con un impiego all’ONU di Ginevra. Cantet evoca quindi la vita vuota di un disoccupato che rifiuta di accettare la propria situazione, calandola in spazi emblematici (i parcheggi desolati e freddi dove si rifugia; la sua stessa casa, avvolta in un’atmosfera cupa, le montagne svizzere incombenti e oppressive). È la dimensione di una deriva, mentale prima ancora che concreta, in una non esistenza virtuale che, oltre vent’anni dopo, può essere accostata all’allucinata quotidianità reale di una parte della nostra società attuale. (Roberto Chiesi)
Verso il sud è ambientato ad Haiti, nel 1979, nel pieno della dittatura di Duvalier figlio e delle repressioni dei Tonton Macoutes. Tutto questo, però, nel film rimane quasi sempre confinato fuoricampo (salvo esplodere nel momento più impensato), perché alla base ci sono tre racconti dello scrittore haitiano Dany Laferrière incentrati sul tema del turismo sessuale. Protagoniste sono tre donne sulla cinquantina (interpretate da Charlotte Rampling, Karel Young e Louise Portal) che si contendono le attenzioni del giovane stallone Legba (Ménothy César). Il corpo diventa quindi merce di scambio: per i giovani haitiani coincide totalmente con il loro valore d’uso (anche se non riesce mai a diventare strumento di riscatto), per le facoltose clienti un bene da sfruttare, un prodotto di cui è anche possibile innamorarsi. Scegliendo come spazi privilegiati del racconto una spiaggia e un resort di lusso, Cantet crea qui una sorta di piccola utopia coloniale, destinata inevitabilmente a sfaldarsi con l’irrompere improvviso della Storia. E della sua violenza. (Alberto Libera)
L’opera che ha consacrato Cantet come uno dei maggiori autori del cinema francese contemporaneo, Palma d’oro a Cannes e soprattutto il film sulla scuola con cui tutti i film sulla scuola – ancora oggi – devono confrontarsi. Entre le murs, titolo originale sia del film sia del romanzo da cui è tratto significa “fra le pareti” e dice già molto dell’idea di scuola che Cantet insieme a Robin Campillo e François Bégaudeau – autore del libro e protagonista del film nei panni di se stesso, un professore di lettere di scuola media – avevano in mente scrivendo la sceneggiatura. Ovvero un racconto letteralmente imprigionato all’interno di un edificio scolastico – un istituto del XX arrondissement di Parigi, periferia est della città – e di una classe quarta del Collège (con studenti di 14/15 anni) multirazziale e un po’ complicata, ma non più di qualsiasi altra. Filmando camera a mano, in stile dardenniano e senza una vera e propria trama, Cantet riesce nell’impresa di dire qualcosa di vero sulla scuola di oggi, di mostrarla com’è, con un realismo e una naturalezza da lasciare sbalorditi. Fra lezioni, consigli di classe, riunioni e colloqui con i genitori, la prospettiva coincide sempre e solo con quella del prof di lettere, ma riesce a dare uno spaccato estremamente sfaccettato e complesso della società (non solo dei teenager) francese di inizio millennio. Capolavoro! (Lorenzo Rossi)
La scelta di Laurent Cantet di far seguire all’acclamato La classe, trionfatore a Cannes nel 2008, un film apparentemente opposto come Foxfire può essere sembrata strana. Il realismo documentaristico dell’ambiente scolastico diventa elegante saggio d’epoca, stilisticamente aderente all’epoca che racconta. Siamo nel 1955, durante la presidenza Eisenhower, da qualche parte nello stato di New York. È un’America provinciale e bruta, segnata dalle leggi di quello che oggi chiamiamo patriarcato e che allora sembrava un’inscalfibile normalità. Stanche dei soprusi e delle umiliazioni quotidiane, alcune ragazze – un “gruppo” che scopre la ribellione come estrema forma di libertà – decide di reagire. La matrice letteraria – Foxfire è tratto da un romanzo di Joyce Carol Oates – si sente, la regia ha una cadenza classica, certo meno “nervosa” e tattile di quella di La classe. Ma quando questa storia di liberatoria vendetta, di rifiuto a porgere l’altra guancia prende corpo e forma, esce fuori l’umanità di Cantet, la sua pulsione di giustizia, l’adesione a ogni rivoluzione piccola e giusta. Perché Cantet, che parli di uomini piegati dal lavoro, di studenti e professori della periferia parigina o di giovani donne che rifiutano collettivamente l’abuso del maschio nell’America degli anni Cinquanta, è un autore che guarda sempre alla libertà, alla possibilità di un mondo migliore, schierandosi dalla parte giusta – anche quando sconfitta – della Storia. (Federico Pedroni)
Tra il 2012 e il 2014, Cantet gira due film a Cuba, La fuente, episodio del film collettivo 7 Days in Havana, e Ritorno a L’Avana, tornando in quel mondo caraibico già raccontato in Verso il sud. Nel suo interesse per questa zona del continente americano c’è un lavoro prima storiografico, poi antropologico e infine umanista, quasi a voler chiarire i presupposti di tutta la sua opera. Se negli anni ’70 di Haiti di Verso il sud c’era inevitabilmente la riflessione sul colonialismo francese, nei film cubani c’è il confronto fra esperienza e sua elaborazione, a partire da incontri fatti e luoghi frequentati sull’isola. La vita prima del cinema, dunque, e il cinema che nasce dalla vita. La fuente prende spunto dalla conoscenza di una sacerdotessa della religione “santería” e dal rituale di purificazione di una casa. Ritorno a L’Avana ha invece una dimensione letteraria e teatrale più evidente (è scritto con il romanziere cubano Leonardo Padura Fuentes) e a partire ancora da una casa, o meglio da una terrazza, scruta le ferite schiacciato dal tallone del potere. Gli uomini prima della storia, dunque, e ancora il cinema a raccontarli. (Redazione)
A La Ciotat, sud della Francia, Cantet e Campillo tornano alle origini: del cinema, dove tutto era cominciato con l’arrivo del treno alla stazione ripreso dai Lumière; della storia operaia francese, nei cantieri navali un tempo teatro di battaglie sindacali; e del loro stesso lavoro, che ha spesso avuto nell’atelier il punto d’inizio (Risorse umane, La classe o Foxfire, ad esempio, sono tutti nati da un lungo lavoro preparatorio in laboratori di recitazione). Con un occhio a Les Innocents di Téchiné, girato negli anni ’80 nella vicina Tolone e attraversato da una feroce violenza emotiva e politica, il film usa l’attrazione tra una famosa scrittrice parigina (Marine Foïs) impegnata in un corso di scrittura e uno dei suoi allievi, un ragazzo membro di un gruppo d’estrema destra (a interpratarlo è lo straordinario Matthieu Lucci, scelto proprio al termine di un lungo atelier...), per far emergere le ferite della provincia francese: un mondo ormai orfano della classe operaia, a cui è rimasta la guerra di recriminazioni con la città come unico sbocco identitario, tra gli istinti fascistoidi dell’adolescente e le illusioni dell’intellettuale progressista. (Roberto Manassero)
Rimontando a una storia di cronaca molto nota in Francia, Cantet - per quello che diventerà il suo ultimo film - sceglie di girare un quasi polar destinano a non avere molto successo. Cupo, teso, a tratti quasi frenetico nel suo incedere, Arthur Rambo attraverso la storia di un giovane scrittore di origine algerina messo alla gogna per la sua precedente attività social omofoba e razzista, mette in campo i temi della libertà di espressione al tempo dei social network consegnando al giovane Rabah Naït Oufella il compito di incarnare la schizofrenia o meglio le schizofrenie della contemporaneità. Retaggi del confronto di classe, conseguenze della repentina e incontrollata esposizione ai tribunali mediatici e sociali, acclamazione e condanna, omologazione e alterità riflettono la violenza serpeggiante e incontrollata di un reale sempre più infiltrato e riscritto dai media di cui Cantet capisce le profonde contraddizioni. La volontà forse un po’ programmatica di sospendere il giudizio sembra però non consentire al film di trovare il respiro al quale il suo cinema ci ha abituato. (Redazione)