C’era una volta Alberto Arbasino, al cinema. Quando era possibile leggere qualcosa di importante che andava contro qualcos’altro, un film importante ad esempio, o qualcun altro, un grande autore. E senza smettere di ammirare quel film o quell’autore trovare il dissenso, quel livello del dissenso, la dissonanza, quel tipo di dissonanza, estremamente significativi, problematici. Insomma il problema c’era, a prescindere da questo o quel film. Da questo o quell’autore. E Arbasino aveva colto nel segno dedicando al cinema pagine condivisibili nell’insieme, e nello stile, sintomatico di quella lucida ironia, perché i suoi contributi scritti hanno saputo cogliere la sostanza di un qualcosa di profondamente sbagliato, qualcosa che ha a che vedere con un contesto culturale compromesso, qualcosa che ebbe la lungimiranza di saper descrivere, indipendentemente dal bersaglio contingente. Forse il bersaglio era talmente alto da indurre a riflettere quanto diversamente grave fosse la situazione in cui andava a collocarsi. Le ragioni di Arbasino erano stringenti, inoppugnabili. Il caso specifico non le invalidava. E a compendio di tutto ciò restano non solo le pagine. Fa testo in perfetta sintonia con la pagina anche lo schermo. Il piccolo schermo.
L’immagine ricorrente, che ha fatto storia nella storia del cinema italiano, è infatti quella in cui Arbasino se la ride al centro tra Nanni Moretti, allora ventiquattrenne, e Mario Monicelli, che di anni invece ne aveva sessantadue, mentre litigano sul presente, il passato e l’ipotetico futuro. Litigano? Non occorre aggiungere altro sulla celebre puntata di Match andata in onda nel 1977, dove Arbasino arbitra questo incontro-scontro tra due autori distanti, a livello generazionale e non solo, ma che in quel momento recitano la parte loro assegnata: quella, appunto, dei litiganti. Sono come personaggi già pronti, e Arbasino è l’autore della scena. Il compito dei personaggi è quello di contrapporsi, sfidarsi a duello a suon di battute. Ma come si suo dire, tra i due litiganti il terzo gode. E il terzo è lui, Arbasino, il vero autore e capocomico che li ha riuniti e si diverte a condurre la lite, la quale segna, nella sua teatralità manifesta, cioè televisiva, un prima e un dopo nel decorso storico del cinema in Italia: l’esibizione di una frattura, di due mondi che si guardano per finta in cagnesco, sfottendosi a vicenda. Non c’è assonanza tra i contendenti, nonostante il tentativo di non andare immediatamente alla singolar tenzone, almeno da parte di Monicelli. Ma Moretti da subito accetta il copione assegnato, sta al gioco facendo appunto Moretti finché anche Monicelli non decide di fare Monicelli.
Arbasino è il padrone di casa, molto a suo agio tra due registi cui corrispondono alle spalle due fette di pubblico che, rilanciando di continuo le questioni messe in campo, in tutti i sensi, amplificano lo spettacolo. Ha apparecchiato lui la scena del dibattito, ne ha orchestrato le dissonanze, perché di dissonanze come scrittore, critico, intellettuale dissidente in materia cinematografica, con un occhio particolarmente allenato in ambito nazionale, se ne intende. Non può essere stato che lui a creare questo evento mediatico, a mettere uno di fronte all’altro, collocandosi emblematicamente in posizione centrale non come moderatore ma come anfitrione e demiurgo. A lui spettano i diritti d’autore relativi all’aspettativa di una tensione che non si fa attendere. E trova pronta conferma in battute salaci che piovono nel breve e nel medio termine della puntata da un lato e dall’altro.
Chi ha ragione tra i due? Sicuramente entrambi. Ciascuno si fa portatore di un punto di vista che non è confutato o superato dall’altro. La verità, e il tempo lo ha dimostrato, poteva chiaramente essere spalmata su tutti e due i fronti. Se non ci fossero stati Moretti e Monicelli, le loro postazioni in quella o in un’altra circostanza simile potevano tranquillamente essere occupate, a sinistra da Michelangelo Antonioni, anziché da Monicelli, e a destra dallo stesso Arbasino, invece di Moretti. Sarebbe mancato però l’arbitro che arbitro non era, né Arbasino avrebbe potuto recitare la parte in commedia dell’arbitro di se stesso. Meglio restare in mezzo alla mischia. E godersi direttamente in campo, sotto i baffi, un “match” che non si sarebbe mai potuto svolgere senza una regia come la sua, se non fosse stato lui a creare ad arte la situazione, all’occorrenza.
Al posto di Monicelli e Moretti, complici le iniziali corrispondenti, Antonioni e Arbasino se ne sarebbero dette di santa ragione. Perché ad Arbasino si devono due memorabili stroncature, lunghe e circostanziate, che avevano come bersaglio non un solo film di Antonioni ma più d’uno, praticamente quasi tutti, specialmente quei film di svolta che avevano definitivamente portato alla ribalta internazionale Antonioni, da L’avventura a Il deserto rosso. Nel primo, La cultura e il regista, apparso su ll Mondo il 3 luglio 1962, a farne le spese è un po’ meno L’avventura (su cui Arbasino aveva espresso il proprio dissenso ricevendo in cambio una "furibonda" lettera da Antonioni), mentre ne escono con le ossa fracassate La notte e L’eclisse. Nel secondo, Il deserto del Midcult (Il Mondo 30 marzo 1965), la dose viene se possibile rincarata su Il deserto rosso.
Ora, non con il senno di poi, perché sarebbe troppo facile e troppo comodo, ma con il senno di allora, senza aspettare, è chiara la legittimità di Arbasino di detestare quella tetralogia («volendone parlar male», scriveva, a scanso di equivoci), ma ciò che più conta era ed è il metodo, quindi il merito: Antonioni è il pretesto per un’analisi dei danni di lunga durata che stava e sta ancora facendo la «malvagia Pseudo-Cultura» che per ragioni altre, di tornaconto ben diverso, avevano fatto di Antonioni un autore alla moda: «Ma la Cultura, la Cultura vera, è una brutta bestia; e fa dei cattivi scherzi. Non tollera la presunzione: esige umiltà. Ridacchia di fronte al “dernier cri”: non le fa impressione; esige dei fondamenti solidi. Di fronte al rotocalchismo, poi, semplicemente sparisce; basta un lieve sospetto, e non la si trova più. Perciò essa si rifiuta ostinatamente alle appassionate avances di un corteggiatore così ambizioso e tanto programmaticamente à la page come Antonioni; e lo abbandona nelle mani di una sua ancella vestita in maniera assai simile, la Pseudo-Cultura, normalmente delegata a trattare coi giornalisti, coi tenutari di rubriche letterarie, coi frettolosi, con le bas-bleu, con chi in genere preferisce pigliare al volo le idee in voga e i concetti già fatti piuttosto che non guardare la realtà coi propri occhi e studiare i libri veramente fondamentali, magari vecchi, per cercare di elaborare qualche idea che debba un po’ meno alla moda e possegga un po’ più di originalità». La notte, L’eclisse e con effetto retroattivo L’avventura contano in misura relativa. Come Il deserto rosso diventa l’occasione per scoprire le ben più gravi e diuturne mistificazioni del Midcult, Dwight Macdonald alla mano, che si annidano e perpetuano dietro al consenso formale tributato (anche) all’Antonioni de Il deserto rosso. Per dirla ancora e più appropriatamente con Arbasino: «Si è visto ciò che la caricatura di un prodotto culturale più sbraga nell’insensato e nel grottesco, più si trasforma in un talismano di “status”, cioè assume le caratteristiche di un oggetto di prestigio agli occhi di un pubblico che va a vedere certi spettacoli (o legge certi libri, che fino a ieri l’avrebbero annoiato, irritato) per imparare una parola d’ordine (culturale), per partecipare al possesso di un feticcio (culturale) che conferisce prestigio a chi lo sfoggia».
Inutile aggiungere che questo “spettacolo” del Midcult è sempre e più che mai attuale, pervade ogni interstizio dei comportamenti intellettuali di un pubblico e di una critica che si richiamano a vicenda, si scambiano i ruoli. Seguendo quindi l’analisi di questo meccanismo perverso che si appropria anche dei film come “talismani”, come poteva mancare all’appello Il Gattopardo di Luchino Visconti. Arbasino lo affronta ad armi pari, lasciando trasparire che non è soltanto l’opera cinematografica consequenziale che ne estende la risonanza, ma, inseparabile, è anche il romanzo di partenza di Giuseppe Tomasi di Lampedusa a prestarsi a questo (ab)uso tipico del Midcult. Basta andarsi a rileggere le pagine che gli dedica in Grazie per le magnifiche rose (Feltrinelli, Milano 1965), per farsene un’idea circostanziata. E accorgersi, a lettura finita, che il “match” è ancora in corso, si ripete quotidianamente. Diversi i libri, diversi i film, diversi gli autori. Uguale resta l’impianto da Midcult neanche tanto mimetizzato. Tutto sotto i nostri occhi. Senza però più qualcuno d’ora in avanti a farci orecchiare le opportune dissonanze.