Non è mai stato un grande autore, Wes Craven. Giusto per ricordarne il contesto (anzi, uno dei due: dell’altro si dirà più avanti), non ha mai avuto né la forza pessimistica, né l’eleganza figurativa, né la perfezione “industriale” di John Carpenter, fra i suoi compagni nella meravigliosa avventura del New Horror negli anni ’80.
Craven è sempre rimasto in bilico fra cialtroneria e invenzione: a volte gli ha portato fortuna, altre volte no. Non servono a niente – tantomeno alla sua memoria – i coccodrilli facili, le lacrime da prefiche dell’ultima ora. Servono a pochino anche le memorie personali, di coloro che, nati negli anni ’70, appartengono alla generazione dei moviegoer romantici e infaticabili, fulminati sulla via di Damasco dalla visione in sala di Nightmare – Dal profondo della notte nel 1984. La qual cosa, sia chiaro, è importante e per molti versi emblematica, ma allora potrebbero dire lo stesso tutti quelli che all’epoca videro al cinema Non aprite quella porta, o 2001: Odissea nello spazio, o Il mucchio selvaggio, o ancor prima Psyco (pensate che roba!); e chi lo dice che oggi qualcuno non sia rimasto altrettanto fulminato da Saw, o da Paranormal Activity? Non si fa un gran servizio, in questo modo. Ognuno ha i propri ricordi, e le nostalgie del caso.
Mi pare però più onesto, per un pezzo fondamentale di cinema di genere che se ne va, e all’indomani di tutti i facili (e, ammettiamolo, insopportabili) piagnistei da social network, capire davvero i motivi della rilevanza di Craven nell’immaginario orrorifico contemporaneo. Capire perché questo regista dell’Ohio, morto a 76 anni, appartenga di diritto a chi l’horror non solo l’ha fatto, ma l’ha anche modificato, perfino a ragione della sua sciatteria, della trascuratezza evidente di molti suoi film.
Wes Craven, e questo è il maggior valore di tutta la sua opera, è sempre stato consapevole del tempo. Non è scontato. Molti autori di genere (di qualunque genere) spesso e volentieri sono sempre andati avanti a testa bassa badando più alla poetica che alla cultura, più all’idea personale che a una visione personale della realtà. Non è un male, per carità, anzi non sono pochi quelli che attraverso un percorso analogo, identitario e identificativo, sono comunque riusciti a mettere in scena la società traducendola e vestendola con abiti di genere (Larry Cohen, per esempio, o certo John Landis). Craven, invece, più che a sé, e al sé più cinefilo (almeno fino alla deriva postmoderna di Scream e Nightmare – Nuovo incubo), ha quasi sempre pensato al mondo: non al sistema, non agli ingranaggi claustrofobici del mestiere, ma proprio al mondo che lo circondava, fatto di cultura, di pensiero, di speranze, di illusioni e di disillusioni, un mondo fatto di persone.
Anche per questo motivo i suoi film, come piace dire a tanti (e per lo più a sproposito), sono politici: ma non perché hanno l’ambizione di incidere sulla realtà, e di dire la loro sulla realtà, bensì per la semplice – ma vitale! - coscienza dello scenario socio-culturale in cui sono venuti a nascere. È anche grazie a questa sensibilità ambientale che i film di Wes Craven – non tutti – sono riusciti a intercettare così bene e con tale forza le fantasie di numerosi spettatori e fan dell’horror. Fantasie, chiaramente, che riguardavano non soltanto il sogno e la paura, ma pure i modelli e gli archetipi, i fondamenti.
Il peso di L’ultima casa a sinistra (1972) e Le colline hanno gli occhi (1977), al di là della qualità specifica, sta tutto qui, nell’aver colto – assieme ad altri – non tanto lo spirito dei tempi ma cosa era necessario fare per dire qualcosa di rappresentativo sui tempi, qualcosa di feroce e mostruoso, e dal basso, in maniera sovente rozza e approssimativa, eppure libera di sbagliare e di essere rozza e approssimativa, la maniera di un genere genericamente negletto, liberissimo di fare e di dire.
Eccolo, il secondo contesto che si citava all’inizio, quello degli anni ’70: per Craven, prima del New Horror, c’è stata la New Hollywood Horror, e non è poca cosa. Per entrambi i decenni, comunque, i Settanta e gli Ottanta, e dentro ad entrambi, Craven è stato una voce in grado di localizzare di volta in volta nervi scoperti, ma anche solo di indovinare l’argomento giusto al momento giusto. L’incubo, per esempio, affrontato prima in Benedizione mortale (1981) e poi in modo definitivo con Nightmare e Il serpente e l’arcobaleno (1988, il suo capolavoro), è lì a dimostrarlo, specchio di una società in crisi senza rendersene conto, dove la Reaganomic e i suoi diktat impedivano alla gente di svegliarsi.
Questo è stato il merito dei film di Wes Craven, oltre ogni singolo amore per quel titolo o quell’altro, oltre la loro riuscita o il loro fallimento: aver ascoltato la realtà (e aver anche avuto l’umiltà di ascoltarla), non per darle retta o trasformarla ma per raccontarne le sembianze meno serene e meno ideali con l’horror, il genere supremo per un simile scopo.