C’è qualcosa di macabro che rende la realtà una terribile, esemplare rappresentazione dello stato delle cose cinematografiche in Italia: un’Italia che premia se stessa, come è accaduto all’ultima Mostra di Venezia, come esaudendo l’ultimo desiderio al condannato.
In altre parole, il gesto tragicamente impressionante con cui Carlo Lizzani, veterano della storia del cinema italiano e suo primo importante storico, si è tolto la vita a novantun anni, al di là delle ragioni o sragioni private, assume un aspetto emblematico. Specialmente se rapportato al significato quasi contestuale e per molti versi genealogico sul piano storico-cinematografico.
Come sempre più di frequente accade con la scomparsa dei grandi del cinema italiano che a stento sembrano aver trovato nelle generazioni successive effettivi esempi di continuità, semmai di rottura, nemmeno tanto duratura, il problema è quello della sopravvivenza e tenuta complessiva di un sistema. In cui appunto le radici, cioè i padri fondatori anche per sopraggiunti limiti di età “saltano”, in tutti i sensi, senza che a quest’immagine violenta della morte (siglata da suicidi eclatanti, quello di Lizzani come già quello dell’altro ultranovantenne Mario Monicelli qualche anno fa) corrisponda un’alternativa credibile, nuova, sostenibile.
Se leggiamo quest’ultimo infausto avvenimento reale alla luce cupa e tremendamente filologica del ricordo cinematografico ci accorgiamo che obbedisce a una logica della rappresentazione. Cui Lizzani volente o nolente ha finito per richiamarsi: la scelta gratuita, morale, indifferente del piccolo Edmund di gettarsi nel vuoto da un palazzo in Germania anno zero di Roberto Rossellini, film al quale Lizzani collaborò attivamente e che forse contribuì a realizzare materialmente, lasciando d’ufficio nel 1947 il progetto commissionato dal Pci sulla strage di Portella della Ginestra de La terra trema a Luchino Visconti.
Germania anno zero, con il suo tragico finale cui anche Lizzani concorse coadiuvando Rossellini (su cui nel contempo vigilava per conto del Pci e riferiva, attraverso una fitta corrispondenza dal set con Antonello Trombadori), fu in un certo senso la sua parziale “opera prima” (il suo primo cortometraggio, Festa dell’Unità, lo girò solo l’anno dopo, nel 1948). Così come la scena del suicidio di Edmund in qualche modo ha trovato un tremendo riscontro nella sua “ultima” azione cosciente, suggellata da un messaggio laconico, semplice, curiosamente inappropriato sul piano semantico (metaforicamente si dice “staccare la spina”, non “la chiave”).
C’è in questa ennesima morte eccellente, mediante suicidio, che flagella la cinematografia italiana di un tempo che fu, un segnale inquietante, quasi un monito rivolto al presente e alle sue pratiche autoreferenziali e suicide. Lo stesso che aleggia nel film funebre e retrospettivo di Ettore Scola, Che strano chiamarsi Federico. In memoria - e morte – di Fellini. E di una stagione irripetibile della storia del cinema nazionale e dei suoi autori.