Chi leggerà queste poche righe lo farà dopo che a Genova, nella chiesa di San Francesco d'Albaro, si saranno svolte le esequie del grande Claudio G[iorgio] Fava, che ci ha lasciati d'improvviso nella sua città proprio la sera di Pasqua, a 84 anni.
La scelta di provare a scriverne solo dopo aver preso parte ai funerali è stata deliberata, e si è rivelata giusta, perché, in una giornata nella quale cielo e mare liguri da lui tanto amati hanno voluto offrire il meglio di sé, ha dato modo di pesare concretamente e fino in fondo l'importanza della sua figura, a confronto col suo quartiere, lo scenario della vita quotidiana, la chiesa dove aveva sposato la sua Elena cinquant'anni fa, la clinica dove purtroppo non è riuscito a superare i postumi di un improvviso intervento chirurgico, e persino la non più esistente sala - il cinema “Star” di via Bocchella - dove il Centro Universitario Cinematografico del capoluogo ligure lo invitava negli anni buoni a tenere le sue rutilanti presentazioni, apprezzandone lo smagliante nitore e la capacità di prendersi sì sul serio al momento giusto, ma solo fino a un certo punto.
La conoscenza reciproca di Claudio e della pittrice e narratrice Elena Pongiglione aveva del resto avuto luogo, profeticamente, grazie alla comune frequentazione del mitico cineforum dei gesuiti dell'Istituto “Arecco”, la cui memoria è inseparabile dalla gigantesca ombra di padre Angelo Arpa (Fellini a Genova per mostrare nottetempo al cardinale Siri La dolce vita ed averne un tacito placet; il festival sestrilevantino del cinema sudamericano con Gianni Amico) e che è stato una fucina davvero superba di grande cinefilìa critica (un nome per tutti: Oreste De Fornari).
E non poteva che tornare alla mente dei più anziani, diretti testimoni d'epoca, un favoloso aneddoto (autentico) di allora. Proprio in quell'infelice cinema lungo e stretto, Fava presentava - dopo lunghi anni di assenza del capolavoro di Visconti dagli schermi: poteva essere più o meno il '68 - Senso, temibilmente presente in platea il pontefice massimo del culto viscontiano ortodosso, antico e accettato, dell'epoca: Guido Aristarco, il passato teorizzatore del transito del regista “dal racconto al romanzo, dal neorealismo al realismo, dalla cronaca alla storia”, allora fresco di cattedra alla Facoltà di Magistero (altri tempi, veramente!) dell'ateneo genovese.
Ad Aristarco, laico e marxista dall'accentuata intransigenza in quel periodo di accesa contestazione, cattedratico pioniere, non doveva probabilmente essere andato a genio il fatto che il locale CUC - non a caso all'avanguardia sulle piste della lezione dei “giovani turchi” dei “Cahiers” e della vulgata nazionale propiziatane da Aprà attraverso “Filmcritica”: Ambrogio, Viganò e Humouda si abbeveravano peraltro direttamente allle fonti parigine... - si fosse rivolto al cattolico, moderato e a sua volta filofrancese Fava, piuttosto che non a lui, per introdurre a un pubblico prevalentemente studentesco uno dei, se non il, film della sua vita.
Sta di fatto che, mentre il presentatore svolgeva inappuntabilmente il suo compito dal microfono situato sotto lo schermo, l'illustre convenuto, attorniato dalla consueta cerchia di amici genovesi, si distingueva in commenti ad alta voce dal chiaro intento disturbante. Fava ignorò volutamente la cosa per un po', poi si interruppe e col consueto garbo ironico apostrofò: «Ma quel signore là in fondo che, non avesse quei baffoni tartarici [tale era l'aspetto dell'illustre neoresidente a Capo Santa Chiara in pieno '68] direi proprio che somiglia a Guido Aristarco, potrebbe per cortesia zittirsi un momento?». «Ma io non sono Guido Aristarco» ribatté sorprendentemente l'interpellato: «sono Ermenegildo Zegna!». Lo scambio e anche il cicaleccio che l'aveva causato si chiusero lì, e Claudio concluse da par suo sulla contessa Livia e il bel tenente Mahler.
Ma il ricordo dell'inconsueto e surreale scambio non abbandonò neppure lui se, riparlandone in una pausa di una trascorsa edizione di “Ring!” mi chiese perché, secondo me, in quell'occasione Aristarco si fosse scherzosamente spacciato per l'allora re degli abiti pronti. Non ho naturalmente saputo rispondergli. Oh gran bontà de' cavalieri antichi: il finto Zegna non è più in grado di tornare sul tema ormai da quasi vent'anni, e il suo allibito interlocutore non potrà più ripetergli o ripetersi la domanda.
Così come non farà purtroppo in tempo, Claudio, a vedere stampata la raccolta dei suoi lontani scritti di quotidianista principe del "Corriere Mercantile" di Genova. Ci si era dedicato con disinteressata passione e legittimo orgoglio a fondo, nell'ultimo biennio, non lesinando talora qualche lieve battuta scaramantica, allorché gli pareva (e non a torto) che i tempi editoriali stessero risultando un po' dilatati. E non vedrà neppure l'ampio e impegnativo volume dedicato alla storia dello spionaggio e al rapporto tra il delicato settore e il cinema, che invece, per parte sua, aveva consegnato, puntualmente pronto, all'editore. Resterà di pronta consultazione il suo generoso e spesso aggiornato blog, e sospesa tra i progetti l'ipotizzata ristampa di un suo lontano volume: il tanto introvabile quanto prezioso “Le camere di Lafayette”, una prima raccolta di recensioni e saggi.
Molti i bei contributi dei colleghi quotidianisti attuali: bravissima Fulvia Caprara sulla “Stampa”, come Mereghetti sul “Corriere”, Crespi sull'”Unità” e la Piccino sul “manifesto”, anche e soprattutto al cospetto dell'imbarazzante “buco” aggravato e continuato per tre giorni dell'ormai agonizzante pagina e mezzo di spettacoli di “Repubblica”R2. Lo ha naturalmente ben “fotografato”, anche da concittadino, il collega e amico Natalino Bruzzone, nel congedo tributatogli in prima pagina sul principale quotidiano ligure: «Ha vissuto di film e di libri, di passione per tutto quanto fa cultura, anche la più eccentrica, di devozione per la parola nel racconto e nella scrittura, di abnegazione d'altri tempi per il lavoro in RAI, di sincera bontà d'animo, di squisita gentilezza per il prossimo e di amore per la compagna di sempre».
In quanti si potrebbe desiderare di chiudere la partita un simile epitaffio. Ma solo a lui risulta possibile farlo indossare, con l'irripetibile pienezza e la naturale eleganza che fu dei suoi papillons.