Il nome di Jean-Claude Carrière, morto lo scorso 8 febbraio (era nato a Colombières, in Francia, nel 1931), è inevitabilmente legato a quello di Luis Buñuel. Di sé, a proposito della collaborazione con il regista spagnolo, diceva di essere stato un “super-segretario”, quello chiamato a mettere ordine tra le idee che nascevano a entrambi e venivano poi discusse, accettate, scartate.
Da Diario di una cameriera (1964) in poi, Carrière ha scritto per e con Buñuel, Bella di giorno (1967), La via lattea (1969), Il fascino discreto della borghesia (1972), Il fantasma della libertà (1974), Quell’oscuro oggetto del desiderio (1977), titoli che a citarli tutti in fila, per chi li conosce e per chi li ricorda (a proposito: dei grandissimi della storia Buñuel è uno dei più dimenticati, forse sarebbe ora di tornarci sopra…), danno l’idea di un universo tematico e visivo ancora chiarissimo, solido e insieme volatile come la materia di cui sono fatti, che è quella dei sogni, delle parole come sintomi, degli oggetti come misteri, dei costumi come gabbie di cui liberarsi.
Prima di Buñuel, Carrière aveva lavorato per Tati (che gli aveva commissionato la versione in libro di Le vacanze di Mr Hulot e Mio zio) e collaborato con Pierre Étaix, col quale nel 1962 vinse pure un Oscar per la regia del corto Hereux anniversaire, imparando e affinando con entrambi il gusto poi diventato inconfondibile per una comicità surreale e beffarda, per la rappresentazione di uno straniamento dolce e irrimediabile dalla vita moderna.
Quando, in La via lattea, Carrière decide di interpretare un piccolo ruolo, sceglie quello di Priscillano, vescovo spagnolo del 300 d.C. che predicava l’amore libero per mortificare la carne, secondo un procedimento di accostamento degli opposti – sogno e realtà, naturalmente, ma anche sacro e profano, piacere e dolore – che è stato la cifra del suo lavoro con Buñuel, insieme con l’uso della parola in quanto manifestazione di una realtà cinematografica dissociata da quella dello spettatore, ermetica e lontana, surclassata da elementi espressivi di pari valore, come i rumori fuori campo, il volto di uno struzzo, lo sparo di un fucile.
A ripensarla ora che è morto e già da tempo aveva abbandonato le scena, la filmografia di Carrière, che ovviamente va oltre il legame con Buñuel, traccia la parabola di un intellettuale che ha riso in faccia al potere (politico, religioso, economico) e lo ha preso in giro in modi inattesi, scovandone i meccanismi spietati e un po’ ridicoli ovunque, in ogni forma di contratto e relazione umana, dai borghesi tronfi del Fascino discreto all’uomo e la donna di La cagna di Ferreri (1972), o la donna e l’animale di Max amore mio di Oshima (1986); dall’egoismo come forza motrice della storia del Tamburo di latta (che nel ’79 scrisse con Schlöndorff, Franz Seitz e lo stesso Günter Grass) alla dolcezza rassegnata eppure beffarda di Milou a maggio di Malle (1989), in cui la rivoluzione del ’68 travolgeva una famiglia benestante tipicamente buñueliana, ma si perdeva anche nella dimensione innocua del sogno.
Quando il potere l’ha rappresentato da vicino e dal di dentro, la matrice letteraria delle fonti utilizzate da Carrière ha spesso soffocato la sua visionarietà mettendo in evidenza una visione da storico lucido e fondamentalmente pessimista. È successo in Danton (1983) e I demoni (1988) scritti per e con Wajda, nei film scritti con Miloš Forman - Valmont (1988) e L’ultimo inquisitore (2006) ma anche, anni prima, in quel tenero buffetto alla borghesia ridicola che è Taking Off (1972) - o, ancora, nel celebre adattamento dell’Insostenibile leggerezza dell’essere.
Anche così, comunque, Carrière è stato un perfetto scrittore di letteratura per il cinema, adattando Dostoevskij, Kundera, il Cyrano de Bergerac (nella sua migliore versione, quella firmata da Rappeneau nel 1990 con Depardieu protagonista), L’ussaro sul tetto di Giono e addirittura la Recherche di Proust in Un amore di Swann di Schlöndorff (regista col quale nell'81 scrisse anche L’inganno, film di guerra decisamente da rivalutare). E da perfetto scrittore per il cinema è diventato col tempo una sorta di garante di quel cinema europeo di qualità destinato a un pubblico oggi scomparso di spettatori colti e beneducati.
È strano d'altronde pensare che a un certo punto della sua carriera, quando nell'80 girò Si salvi chi può (la vita), Godard chiamò Carrière per “normalizzare” in qualche modo il suo cinema – forse per ancorarlo a una scrittura forte, anche nei suoi deliri metanarrativi – mentre, in altre epoche e in altri sistemi produttivi lontani anni luce, un regista come Jonathan Glazer ricorse ad esempio a Carrière per Birth - Io sono Sean (2004), confidando che il suo apporto potesse garantire al film quell’elemento di follia imperscrutabile e insondabile che gli era necessario.
Paradossi di un lavoro al servizio dell'industria cinematografica ma anche di uno scontro inevitabile fra normalità e follia, costruzione e distruzione, nel quale la scrittura di Carrière si è mossa, certa di rendere in questo modo la complessità (e decisamente anche l'assurdità) dell'esistenza.