Theo Angelopoulos, che come scrisse Bordwell «era un autore capace più di sintetizzare che d’inventare”, scovò (e sintetizzò) nel primo piano la vera forza di Jeanne Moreau: un volto incorniciato, un fascino non immediato, una bellezza che necessitava di una messinscena e di una performance. In Il passo sospeso della cicogna, dove l’attrice francese morta a 89 anni interpretava la presunta vedova di un politico scomparso, nel momento dell’incontro fra i due personaggi (l’uomo era interpretato da Mastroianni), la macchina da presa, dopo un campo lungo di diversi secondi, si muove verso il basso per inquadrare da vicino il monitor di una troupe televisiva che sta riprendendo la scena. L’obiettivo televisivo stringe sulla donna, ripresa di profilo, immobile e impietrita. Improvvisamente le labbra si muovono: «C’est ne pas lui», dice la donna. Poi si volta verso l’obiettivo – della tv, e così anche del cinema – e ripete in inglese: «It’s not him». Infine si volta e se ne va.
Nel primo piano filtrato da un dispositivo, nella cornice della cornice, Angelopoulos dà al volto di Jeanne Moreau il tempo di incontrare la finzione, di entrare nell’inquadratura, di entrare nel cinema. Non è un caso che oggi, fra le scene che hanno reso famosa l’attrice, ci si ricordi soprattutto dei suoi numeri musicali, delle sue canzoni eseguite dal vivo, di esibizioni mascherate da azioni comuni. Le tourbillon da Jules e Jim di Truffaut, Each man kills the thing he loves da Querelle de Brest di Fassbinder, la camminata in Ascensore per il patibolo di Malle sopra le note di Miles Davis, una meraviglioso cambio di vestiti in La baia degli angeli di Demy.
Lo disse Buñuel, che la ebbe come protagonista in Diario di una cameriera, «quando cammina i suoi piedi tremano leggermente sui tacchi, dando l’idea di una vaga tensione, di un’instabilità». La figura di Moreau era incerta, inafferrabile: non bella come la Bardot (con la quale girò Viva Maria!, sempre di Malle), non così estrema e disperata come sarebbe poi stata la Huppert, ma capace di essere entrambe le cose, bellissima e dannata. Come in Eva di Losey, dove fumava con la grazia perversa di una femme fatale dal fascino così comune da diventare sinistro.
Jeanne Moreau era forse impossibile da cogliere veramente in volto, impossibile da vedere da vicino. Mascherata da uomo in Jules & Jim, selvaggia in Mademoiselle di Richardson, agghindata come una dea vendicatrice in La sposa in nero, ancora di Truffaut. E ovviamente donna che interpreta un’altra donna, ma che per amore finisce intrappolata nella messinscena cui si è prestata, in La storia immortale di Welles, genio che comprese come forse nessun altro la natura fiabesca, letteraria addirittura della Moreau.
Quando era lei, solamente lei, semplice, con i capelli neri sciolti e i tratti irregolari, materna e severa, il suo volto quasi sfuggiva alla durata del primo piano. In La notte di Antonioni – di cui naturalmente Angelopoulos si ricordò, a cominciare dalla coppia con Mastroianni – nel finale al parco, durante la lettura di una lettera, gli stacchi di montaggio mostrano l’attrice da diversi punti di vista ravvicinati: sopra le spalle, sopra il petto dall’alto verso il basso, vicino alle mani che stringono la carta, frontalmente ma leggermente dal basso verso l’alto. Jeanne Moreau legge a Mastroianni un testo che non è suo, entra in un mondo che la riguarda – la lettera, scritta tempo prima, era indirizzata a lei – ma non le appartiene. Il suo volto è il volto di un’altra, malinconico, distante, sofferente; forse il volto della donna che non è più o non è mai stata.
E lì, in quello spazio di nessuno che sta tra la figura sullo schermo e il corpo che le dà vita, c’è una dimensione così indefinita da poter essere riempita da infinite altre donne, da infiniti altri personaggi. E lì, nel silenzio che precede la parola nella bellissima scena di Il passo sospeso della cicogna, sta forse racchiuso il segreto dell'indecifrabile bellezza di Jeanne Moreau.