Ora sarà la volta di commemorazioni, omaggi, convegni, pubblicazioni ex post, premi, retrospettive. Tutto secondo copione.
La scomparsa di Francesco Rosi, che comporta in me il ricordo congiunto di Sandro Zambetti, non mi ha colto di sorpresa, purtroppo. Dal dolore della morte nel 2010 della moglie Giancarla, di cui parla con grande affetto nel suo ultimo libro del 2012 scritto con Giuseppe Tornatore, Io lo chiamo cinematografo, Francesco Rosi non si è mai davvero ripreso. Da allora qualcosa si era “rotto” dentro di lui.
Ma quando l’ho rivisto a casa sua poco prima delle feste ho capito, dalla commozione accompagnata al signorile rammaricarsi di non essere in piena forma (ha usato la parola «scassato»), che sarebbe stata l’ultima volta. Salutarlo, pur con la labile promessa di vedersi a metà gennaio, è stato doloroso, sebbene il dolore fosse compensato dal piacere della sua intatta, affaticata lucidità e dal modo del tutto spontaneo in cui abbiamo parlato persino della morte, ovviamente non come di un evento imminente, ma in generale.
Il suo senso della realtà non consentiva tabù alcuno, nemmeno in quella circostanza. Della morte discuteva ogni volta apertamente come si discute di un fatto concreto. Per quel che ricordo da quando anni fa, durante la proiezione di Uomini contro (1970) a un convegno in suo onore all’Università di Camerino, mi confidò di essersi accorto solo allora che era un film sulla morte.
In un prezioso e ora tanto più commovente documentario di Roberto Andò, Il cineasta e il labirinto (2002), nel finale Francesco si interrogava con disappunto sulla morte. Diceva che la morte concettualmente proprio non la sopportava, da buon intellettuale illuminista, di un illuminismo di scuola meridionale, pungolato dal dubbio e dallo scetticismo persistenti e costruttivi.
Come poteva del resto arrendersi di fronte a questo fatto inspiegabile, lui, autore di capolavori politico-indiziari come Salvatore Giuliano (1962), Le mani sulla città (1963), Il caso Mattei (1972), Lucky Luciano (1973) e Cadaveri eccellenti (1975), alle prese con i misteri d’Italia, le trame oscure e irrisolte che ipotecano la piena conoscenza storica, morale e giudiziaria dall’immediato dopoguerra ai giorni nostri?
Può darsi che negli ultimi anni il pensiero della morte avesse assunto connotazioni meno teoriche, più contingenti e private, ma quella sera nel suo salotto di casa è rimasto un argomento di conversazione, attraversata appena da un velato sconcerto. Non mi è sembrato rispettoso nei suoi confronti cambiare argomento, capitato per caso. Lui la morte non la capiva, tutto qui, non la accettava razionalmente.
I suoi film riflettevano la testarda volontà di venire a capo di trame oscure, depistaggi, menzogne istituzionalizzate, che solo provocatoriamente potevano assumere carattere metafisico, come in Cadaveri eccellenti, frutto di una condivisione più che di una semplice trasposizione sullo schermo del romanzo originale di Leonardo Sciascia, Il contesto. L’aspetto più lugubre della morte nei suoi film e nella sua prospettiva di autore, l’ultimo di una generazione irripetibile, cresciuta con il Neorealismo, la passione civile e il paradigma dell'inchiesta, riguardava la negazione stessa della verità, una verità a largo spettro. Aveva dunque elaborato il lutto della pluridecennale verità deficitaria italiana, cui non si era rassegnato.
Solitamente si considera la sua ultima opera La tregua (1996), ma non è corretto. Mi piace pensare che gli ultimi capolavori li abbia realizzati a teatro, Napoli milionaria nel 2003, Le voci di dentro nel 2006 e Filumena Marturano nel 2008, tre commedie di Eduardo De Filippo interpretate dal figlio Luca, incredibilmente mimetico, non scelte a caso ma come autentici dispositivi scenici di verità rimaste insolute, sul non meno emblematico terreno domestico e familiare.
Quello tra Rosi e De Filippo è stato un rapporto alla pari, dove il primo ha portato alle estreme conseguenze gli interrogativi rimasti tali del secondo. Quale sarà l’esito della proverbiale “nottata” che comunque “passerà”? Il delitto ipotizzato dai bizzarri fratelli Saporito è stato davvero commesso? Quale dei tre figli dell’ex prostituta Filumena è anche figlio di Domenico? Insomma, domande senza risposta, tutte, quelle che Rosi ha ereditato da Eduardo, come quelle che accompagnano le morti emblematiche di Salvatore Giuliano, Enrico Mattei, Lucky Luciano.
Ecco, l’ultima volta abbiamo parlato a lungo anche della strana, per non dire incresciosa, circostanza che negli in anni recenti siano state realizzate versioni televisive delle opere di Eduardo, in molti casi parallelamente le stesse, con altri prestigiosi interpreti e registi. Perché non farlo anche con gli allestimenti rosiani? Chissà che la sua scomparsa non convinca chi di dovere, prima o poi a provvedere a questa mancanza di riguardo, senso civico e lungimiranza culturale.
E si smetta una buona volta di mandare in onda, quando capita, molto di rado, i capolavori storici del cinema italiano, compresi quelli rosiani, a orari notturni impossibili. È sempre stato questo, fino all’ultimo, l’auspicio inascoltato di Francesco Rosi, autore di preziose «armi di costruzione di massa», come ebbe a definirle il registe e suo grande ammiratore Bertand Tavernier.