Chissà se quello che pensiamo e sappiamo dell’America sarebbe uguale se non l’avessimo prima visto in un film di Wenders. Chissà se prima di Alice nelle città una città americana aveva avuto posti così grigi e così desolati, se prima di Paris, Texas il deserto era mai stato così lungo, o i maglioncini di angora così rosa, e se prima di Nel corso del tempo avevamo capito quanto potesse essere vuoto un paesaggio.
Le immagini più note del cinema di Wenders, per chi con il cinema di Wenders ci è cresciuto (e non è un mero dato personale, è anche la parabola di un regista considerato seminale dal mondo intellettuale compatto fino ai primi anni Novanta, poi un po’ inspiegabilmente caduto in disgrazia, forse perché troppo esplicito, troppo modernista, troppo serioso ma non abbastanza rigoroso), sono le immagini di una generazione di spettatori, l’emblema di un certo modo critico e innamorato di guardare al mondo e alla Storia. E sono molto spesso le immagini di Robby Müller, straordinario direttore della fotografia scomparso ieri all’età di 78 anni, che con Wenders ha collaborato in diversi film, dal '69 di uno dei primi corti, Alabama (2000 Light Years), al ’94 di Al di là delle nuvole, oltre ad aver lavorato con Jarmusch, Von Trier, Bogdanovich, Friedkin,
Era di Curaçao, Antille Olandesi, aveva studiato in Olanda, poi dalla fine degli anni ’60 in Germania, e con l'amico tedesco aveva trasfigurato l'on the road nel bianco e nero allucinato di Alice e la terra di nessuno tra le due Germanie nel bianco e nero questa volta più bianco e malinconico di Nel corso del tempo. Nel colore aveva trovato le forme di un immaginario in via definizione (Paris, Texas), l’oscurità (quella spiaggia nera nel finale di L’amico americano resta forse il momento figurativamente più alto della carriera di entrambi) e un sogno così in anticipo e indecifrabile (quelle immagini dell'attività cerebrale durante il sonno registrate dalla macchina di Fino alla fine del mondo...) da sembrare fuori posto, fuori tempo, fuori tutto.
A metà anni Novanta si disse più o meno la stessa cosa di Dead Man, un western che nonostante fosse un western doveva molto a Wenders, compreso il suo direttore della fotografia, fatto però da un regista più bravo, Jim Jarmush, che con Müller lavorava già dai tempi di Daunbailò e che a Cannes, presentando il film, ebbe il coraggio di dire che a lui, girando un western, di John Ford non fregava nulla. Fu giustamente mandato al diavolo, salvo che in questo caso l'incredibile bianco e nero di Muller per davvero col western non c’entrava nulla, ed era piuttosto una visione ipnotica del trapasso dalla dimensione reale a quella trascendentale. Un mondo di fantasmi.
Ieri, in un tweet sul suo profilo personale, Jarmusch ha scritto che senza Müller probabilmente non avrebbe imparato nulla di cinema, e allora vengono le immagini che hanno creato insieme, quelle dissolvenze incrociate di Ghost Dog in cui le immagini danzano su stesse, scollandosi leggermente le une dalle altre senza però muoversi, avanzando al ritmo sinuoso e felpato del protagonista che nessuno vede e nessuno sente. Un altro fantasma, per l’appunto.
Müller ha saputo portare il cinema nei territori al limite della rappresentazione. Come il noir virato seppia e color stanchezza di Saint Jack di Bogdanovich, come le immagini di Vivere e morire a Los Angeles, dove il paesaggio metropolitano anni Ottanta era già stato trasformato nella sua versione immaginaria, era già visione da videoclip, ma ancora pienamente, potentemente cinematografico. O come la grana spessa, slabbrata del Von Trier di Le onde del destino, che rimandava a una memoria in Super8 degli anni Settanta (quella che in realtà Müller aveva fermato a suo tempo nelle polaroid di Alice), e di Dancer in the Dark, agli albori del digitale e dunque già parte di quel processo di scorporazione della materia del cinema avvenuto con l’abbandono dell’analogico. Altre storie di fantasmi ancora...
Müller ha smesso o quasi di fare cinema proprio in quegli anni, a inizio Duemila, amato, celebrato, non sempre premiato (gli è mancato Oscar). Gli è comunque bastato per capire dove il cinema sarebbe andato a finire, dopo aver contribuito a condurlo fino a quel punto e e avergli consentito di guardare oltre.