Dovrebbe risultare pacifico per qualsivoglia essere umano degno di essere venuto al mondo e di starci, che degli scomparsi – tranne estreme eccezioni – sia insieme spontaneo e doveroso non dire che bene. Personalmente – pur da tifoso milanista autosospeso, con Giovanna Grignaffini, da quel lontano marzo 1994 fino al provvido se pur allucinante arrivo anche qui dei cinesi... – temo che finirò per farlo persino per Silvio Berlusconi, se ci sarò ancora quel remotissimo giorno in cui saluterà. E devo tuttavia dire che la rassegna stampa cartacea e non passata in rassegna sulla scomparsa di Rondi ha davvero sorpreso per un’unanimità di cordogli e laudationes che ha attraversato l’intera estensione dell’arco costituzionale e non.
Diviene allora interessante cercare di capirne il più obiettivamente possibile i motivi. I delusi da un simile atteggiamento potranno sempre rifarsi andandosi a rileggere l’ineffabile voce ad personam di Nonciclopedia, o tornare ad auto-recitarsi a memoria l’anche troppo citato, se pur magistrale, epigramma pasoliniano del ’58 raggiungibile ne La religione del mio tempo: che peraltro, non a caso, lo stesso interessato aveva successivamente sostenuto essersi da tempo tramutato in personale amicizia con l’autore.
Devo confessare di cominciare a sentirmi un po’ a disagio nelle vesti ormai consacrate e inevitabili di necrologizzatore di colleghi-maestri per loro sfortuna se possibile più anziani di me, e troppo solleciti a raggiungere località unde catullianamente negant redire, spesso di frequentarli assiduamente e fare cose con loro: Enzo Ungari, Davide Turconi, Mario Orsoni, Angelo Humouda, Pino Turroni, Franco Quadri, Nedo Ivaldi, Nino e soprattutto Adelio Ferrero su tutti, Gianni Volpi, Claudio Fava, Gianni Rondolino, da ultimo Lorenzo Pellizzari.
Per Gian Luigi Rondi la cosa è diversa. L’ho visto in vita mia dal vivo una sola volta e da lontano, in quell’indimenticabile estate 1978 a Sanremo, in cui si preparava la grande retrospettiva rosselliniana (il Maestro dei maestri era mancato un anno prima) cui lui sovrintendeva pontificando da lontano, mentre Edoardo Bruno assicurava l’esecutività sul campo (e in quell’impresa c’erano anche enrico ghezzi allora ancora maiuscolo, Marco Giusti, l’ottimo padre Fantuzzi sj, Sandro Rezzoagli, Don Ranvaud, che a sua volta ha appena salutato, e Isabella Rossellini, vissuta come un’apparizione che reincarnava miracolosamente sua madre peraltro allora ancora in vita e attiva). Ma ho finito anch’io di identificarlo, o quasi, col cinema fin dall’adolescenza.
Le recensioni vocali radiofoniche agli inizi degli anni Sessanta, quando «il nostro critico Gian Luigi Rondi» vi si alternava con Piero Gadda Conti (!) ed Enzo Ferrieri (!!). Le prime “presentazioni” tv di film, a occhio e croce più o meno alla stessa epoca. E poi un profluvio di presenze attive, effettive e onorifiche, italiane e francesi, prolungate o saltuarie, ufficiali o ufficiose, dirette o indirette, spesso progressive (come alla Biennale: direttore della mostra, poi presidente addirittura dello stesso ente), fino alla creazione rutilante dei David di Donatello, in cui si è, ed è stato, fino all’ultimo assolutamente identificato: un crescendo vorticoso di presenze, che proprio il sito della manifestazione annovera puntigliosamente in una cronologia biografica dettagliatissima, alla quale gli estensori quotidianisti di qualsivoglia orientamento si sono puntigliosamente quanto inevitabilmente rifatti.
E insieme, immutabile quasi attraverso un settantennio, la titolarità della rubrica recensoria del «Tempo», ultimo sbocco di un incarico ottriato niente meno che da Silvio d’Amico, in apparente contraddizione con le posizioni politiche sostenute durante la Resistenza e per poco anche oltre, prima di una maestosa navigazione ufficiale nel gran mare demo-andreottiano, culminata addirittura (ma non incoerentemente) in una solo superficialmente sconcertante adesione al Pd del più recente periodo, nel quale al Festival veneziano si era sostituita la Festa romana, ma con una dichiarata nostalgia per l’altra denominazione.
Sette decenni, quasi, di attività recensoria quotidianistica: da quando la critica sui giornali aveva tanto spazio e autorevolezza in poche pagine, fino al periodo, il nostro, in cui sortisce pochissimo in righe e in attenzione, alla faccia di una foliazione fattasi sfacciatamente misurata. Una cosa da capogiro, se ci si pensa: Rondi scriveva già di cinema sul quotidiano di Angiolillo e poi di Gianni Letta quando chi scrive qui aveva un anno.
Perché, allora, una parte di noi è rimasta in qualche misura sorpresa da questo riguadagno di Paradiso da parte del Grand Commis per eccellenza del cinema italofrancese, e forse non solo; l’amico di famiglia di Rossellini e della Bergman Ingrid (intervistata dandole del tu in un memorabile flusso biografico a Londra), di De Sica e di Bergman Ingmar, cui riuscì a far accettare il Leone d’Oro alla carriera – se la memoria non inganna – in uno dei primissimi anni Ottanta?
Lo ha colto bene Silvana Silvestri sul «manifesto»: «Non che lo si sia visto frequentare i cineclub – non erano certo luoghi di potere. Le strade che aveva preso la critica al volgere degli anni ’70 divergevano e poche volte si incrociavano. Eppure anche in questo ambito a un certo punto ebbe l’audacia di scegliere come selezionatori di Venezia le punte estreme della critica (Enzo Ungari, Roberto Silvestri) in un panorama che stava totalmente cambiando le coordinate della visione (l’ideazione di Massenzio sfuggiva a ogni logica precedente e nasceva dopo anni di esplorazioni e scoperte degli spazi off)».
Proprio qui sta il punto: a chi come i nostri coetanei si affacciava all’interesse per il cinema convinto di entrare in possesso, col discuterne anche per iscritto, di un formidabile strumento di opposizione per “cambiare le cose” (nel cui ambito poteva essere appassionante – anni ’50 e ’60 – optare per il marxismo lucaksiano di «Cinema Nuovo» piuttosto che per quello dellavolpiano, forse altrettanto immaginario, di «Filmcritica»...) sono passati addosso, uno dopo l’altro, i «Cahiers» e la politica degli autori, lo strutturalismo e la semiotica, la psicanalisi e i minimalismi, il proliferare dei festivalini in ogni angolo di paese e «Hollywood Party», con quant’altro fino al quadro di oggi si voglia aggiungere. E Rondi invece sempre lì, nei decenni, a fare il Rondi, insieme camaleontico e immutabile, una sorta di Talleyrand potenziato: chi più di lui avrebbe meritato di riguadagnare un Paradiso, certo diverso da quello immaginatogli da Pasolini?