Proviamo una volta tanto a mettere da parte le categorie. Gli esemplari. Le classi. Il cinema è una forma che si parla a distanza, che dialoga con il suo tempo ma anche con se stessa, fuori tempo, nel tempo; e lo fa a prescindere dagli ordini, dalle suddivisioni, dai generi. Esiste un cinema che crede alla propria identità a tal punto da eccedere il “bello” e il “brutto”, l’errore e l’approssimazione, la sciatteria e il volgare? Certo che esiste, perché del cinema si deve discutere anche nei termini di qualcosa di vivo e che si trasforma, mai morto, mai sconfitto, e invece guizzante e sfuggente.
Ecco, sì, il cinema che sfugge: alle etichette di comodo, alle gabbie critiche, all’integralismo dei fan; quello che sfugge persino al mercato, quando sembra che sia proprio quest’ultimo a motivarlo e a giustificarlo. Un cinema né diverso né uguale a niente, soltanto il cinema che confida nella giustezza di esserlo, cinema. Non è mica poco, credete.
Al di là di qualunque entusiasmo aprioristico e della cinefilia catastale, i film, ogni film, qualunque tipo di film, non sono la materia di cui sono fatti i sogni (per carità), ma un corpo che cammina e che attraversa gli anni e le epoche, i climi e i pensieri. Attraversa pure le mode, e le sconfigge sul loro medesimo terreno d’elezione: perché i film restano anche quando sono passate, le mode; rimangono in piedi, chi più ammaccato, chi più in forze, però restano. Se vogliamo che il cinema non si asciughi nell’assolutismo autoriale o nell’egemonia del “prodotto”, cerchiamo almeno di non tappargli la bocca. È bene che dica, il cinema: prima e poi, durante la sua occasione ma anche dopo, quando i conti sono già fatti e quando la Storia è già accaduta. Non credo di pretendere la luna, voglio solo permettere ai film di scambiarsi reciprocamente mille parole e mille frasi, in modo da costruire un discorso che li riguardi direttamente anche quando sembrano così distanti e così inconciliabili.
Una visione romantica? Può darsi. Tuttavia se per romanticismo intendiamo un sentimento capace di unire gli opposti e di vincere sulla disarmonia che divide le serie e motiva le gerarchie, allora va bene, lo ammetto, sono estremamente, inguaribilmente, inevitabilmente romantico. Perché mi piace che il cinema non scada come il latte o lo yogurt: mi piace al contrario che i film resistano al loro scenario sociale e culturale, che lo incalzino e lo trascendano mentre ne rappresentano con tempestività le gioie e i dolori, i vizi e le virtù. Un cinema importante perché c’è stato e – prove alla mano – c’è ancora, perdio, e non per altro! I fervori massimalisti e le perplessità snob si annullano a vicenda: questo cinema è legittimo e soprattutto sincero, non cede alle lusinghe dell’ordine e non china la testa di fronte alle censure del buon gusto, non indossa lo smoking e non usa deodorante; ma non è un cinema barbone, non è vagabondo e neppure chiede l’elemosina, casomai è un cinema ammutinato, capace perciò di rivoltarsi non nella tomba bensì ai cerimoniali e alle onorificenze che lo vogliono in pensione, già dato, già passato.
Esistono allora i film che non fanno scelte definitive e che pensano – forse loro malgrado, magari inavvertitamente, senza dubbio irresponsabilmente – di poter “impelagarsi” con altri film che li hanno preceduti, che vivono con loro e che li seguiranno? Con film dunque già esistiti e che devono ancora esistere? Per favore, rispondiamo tutti di sì. Altrimenti diamo la precedenza all’idea necrofila che il cinema appartenga esclusivamente alla propria età anagrafica.
Umberto Lenzi, che non ho mai conosciuto di persona, era senza targhe e senza galateo, indisciplinato per natura, e come tanti prima e dopo di lui ha creduto al cinema che non si abbandona da sé in isolamento.