Un uomo d'altri tempi. Che ha continuato, fino all'ultimo, a fare un cinema modernissimo (e quindi “fuori moda”, contemporaneo come sanno esserlo i classici). Che ultraottantenne era ancora il ragazzo folgorato da Paisà, con quell'entusiasmo e quella curiosità, uniti a una grande cultura, mai esibita, in cui confluivano Tolstoj e Gramsci, Shakespeare e Verdi, il melodramma e il neorealismo, Brecht, Goethe e Visconti.
Vittorio Taviani se n'è andato, all'età di 86 anni. E io lo ricordo seduto sul divano del suo studio in Trastevere, mentre ascolta paziente e divertito le domande di una lunga, lunghissima intervista, che aveva l'ambizione di essere il riepilogo di tutta una vita e una carriera. Anzi due, visto che le strade di Paolo e Vittorio sono sempre state una sola. Tanto che è impossibile, e anche inutile, provare a distinguere il lavoro dell'uno e dell'altro. O le loro parole. «Rispondono “i Taviani”, quello che dice lui è quello che dico io, e quello che dico io è come se lo dicesse lui».
Se n'è andata una metà di un insieme formidabile, a cui dobbiamo un bel pezzo di storia del cinema, da Un uomo da bruciare a Padre padrone, da La notte di San Lorenzo a San Michele aveva un gallo, da Kaos a Le affinità elettive. E che, superata la soglia degli 80 anni aveva, anche azzardato uno dei film più giovani e sperimentali del cinema italiano recente, Cesare deve morire. Per poi approdare l'anno scorso alla «chiusura del cerchio», l'incontro con Beppe Fenoglio, Una questione privata, ribadendo la fede antifascista, oltre a quella nella vita, l'amore, le passioni che ci fanno essere umani.
Se non ricordo male, fu proprio quella metà dei Taviani, Vittorio, ad aggiungere la parola “mistero” alle due che li avevano accompagnati per tanti anni, e che riproponevo alla loro attenzione: utopisti e sovversivi. «Forse abbiamo trovato una scheggia di senso nella nostra esistenza. La vera ingiustizia è che ci fanno morire senza che nessuno ci abbia dato la risposta definitiva su che cos'è la vita».
Ma anche di questo, con lui, con loro, si parlava col sorriso sulle labbra, con grande serenità. Paolo più chiacchierone, Vittorio più compassato, da fratello maggiore (di due anni), sempre pronto ad aggiungere, chiarire, chiosare. I ricordi di San Miniato, il padre mazziniano e la madre manzoniana, le gite premio a vedere l'opera, «la scoperta della finzione che svela la realtà», l'innamoramento per il cinema di Rossellini, i primi lavori con Valentino Orsini (nel '62 e '63), I sovversivi pre-sessantottini, i film “rivoluzionari", gli equivoci del cinema storico e di quello politico, la passione civile, il successo planetario di Padre padrone Palma d'Oro a Cannes, il “cinema dell'affabulazione”, gli esperimenti televisivi... Una storia bella e importante, che ha attraversato la guerra, il fascismo, l'era democristiana e quella berlusconiana, che si è confrontata con i Zavattini e i Pasolini, che ha prodotto un uomo sensibile, intelligente e appassionato come Vittorio.
Pochi mesi fa, alla presentazione milanese di Una questione privata, c'era solo Paolo, visto che Vittorio non poteva più seguirlo, ma la prima cosa che disse era che il fratello era sempre lì con lui, ed è il “noi” che ha continuato ad usare per raccontare la realizzazione di quel film (un magnifico film) e il senso dell'incontro con Fenoglio: «Ci hanno detto: ma come, parlate ancora di fascisti? Non vi sentite vecchi? Sì, vecchi lo siamo, la cosa non è rimediabile, ma oggi il fascismo sta cercando di tornare, se non è già tornato. (...) La scuola deve aiutare questi ragazzi a capire da dove vengono, perché solo così possono affrontare con più sicurezza la vita, sapendo cosa è accaduto e cosa potrebbe accadere di nuovo». Ché poi, va bene il mistero, va bene la prepotenza della natura con cui bisogna fare i conti, vanno bene le consolazioni della bellezza e della cultura, ma «non è vero che invecchiando si diventa più tolleranti, noi ci sentiamo sempre dei ribelli».
Ciao, caro Vittorio!