La battuta pronunciata dal neo-eletto Presidente Lyndon Johnson in una delle prime scene di All the Way va oltre la semplice boutade, facendosi frase chiave del film prodotto dalla HBO e trasmesso su Sky qualche giorno fa.
In un’America lacerata dal conflitto interno mai sopito legato alla questione razziale che si sta ora esacerbando in una costante escalation di violenza, um lavoro come quello di Jay Roach assume una valenza precisa, non solo celebrativa di un Padre della Patria bensì anche di netta presa di posizione nei confronti della scottante questione politica e sociale.
Regista di commedie (la trilogia di Austin Powers o Ti presento i miei) avvezzo però al cinema d’impegno civile (Recount e il recente L’ultima parola - La vera storia di Dalton Trumbo), Roach ha dimostrato di saper costruire prodotti appetibili per un ampio pubblico, pur senza tralasciare maturate aspirazioni autoriali e un proprio punto di vista sui temi di volta in volta affrontati.
Con All the Way il cineasta omaggia uno statista sottovalutato nella Storia americana, schiacciato tra due colossi mediatici come John F. Kennedy e Richard Nixon. Johnson è infatti ricordato tendenzialmente per la malagestione della questione vietnamita, pur essendo stato prima di tutto grande sostenitore della causa afroamericana e della lotta per i diritti civili. È infatti LBJ che ha portato avanti il progetto del suo predecessore di abrogazione dell’allora vigente segregazione, facendo confluire le leggi inerenti nel più ampio programma del “Great Society” atto a guidare il Paese verso una politica maggiormente equilibrata e attenta ai ceti meno abbienti ed emarginati.
Il film ripercorre le fasi di questo rivoluzionario disegno legislativo, incentrandosi sul primo tumultuoso anno di presidenza del protagonista, costretto a mediare tra le pressioni degli attivisti rappresentati da Martin Luther King e la necessaria unità tra le diverse frange del suo Partito per evitare una crisi interna. Ne risulta un’amministrazione dello Stato giocata più dietro le quinte che in pubblico, fatta di compromessi, accordi e scambi invece di integerrime battaglie tra i banchi delle Camere. Non si mitizza dunque l’eroe, ma anzi si fa leva sui dubbi e le insicurezze che hanno caratterizzato il suo operato, convinto solo delle difficoltà che avrebbero atteso lui e le proprie idee una volta presentate agli elettori.
Lontano dagli idealismi di Mister Smith va a Washington, All the Way è la politica dalla fossa dei leoni, dove non c’è posto per gli agnelli, ma in cui è altresì necessario farsi fiera per fronteggiare l’egoistico individualismo diffuso in vista di un bene comune da raggiungere e difendere, oggi più che mai.