Festival Jazz di Montreaux, 1976. Nina Simone entra in scena e si pianta, immobile, al centro del palco. Accenna un inchino con una gamba sollevata. Alza lo sguardo, fisso e austero, quasi a sfidare – più che scrutare – il pubblico che ha di fronte. Quella specie di duello dura molti secondi finché un sorriso le increspa il volto, quasi a farsi gioco del personaggio pubblico che in polemica col mondo si è ritirato dai concerti già nel 1968.
Quando Nina si siede, a rompere quella rigidità basta il tocco del pianoforte, inconfondibile e delicatamente violento, capace di creare una sospensione magica, una connessione mistica tra lei e il pubblico. Inizia così il documentario di Liz Arbus What Happened, Miss Simone?, presentato a Toronto nel 2014 e ora disponibile anche in Italia su Netflix, che lo ha prodotto.
Il film è una tragedia in quattro atti – nascita, ascesa, crisi e caduta – che prova a raccontare uno dei personaggi più complessi e sfaccettati della scena musicale americana del secolo scorso, un’artista capace di interpretare, nel bene e nel male, lo spirito del tempo fino a incarnarlo e a venirne, parzialmente, travolta. Arbus costruisce, con interviste ad amici e familiari e magnifici materiali di repertorio, una biografia tradizionale che però, per il carattere inclassificabile del suo soggetto, scarta di lato, rimette in discussione giudizi e certezze, traccia un ritratto che non è mai agiografia definitiva perché il personaggio Nina Simone rigetta ogni possibile semplificazione.
Eunice Waymon, questo il suo vero nome, era nata negli anni ’30 in una cittadina della North Carolina, figlia di una predicatrice che la avviò prestissimo alla musica. Grazie all’intercessione di un’insegnante, Eunice crebbe seduta al pianoforte, continuò a studiare con i soldi di una colletta popolare e si costruì una formazione classica. Una proletaria nera che, nel Sud ancora intriso di segregazionismo, suonava Bach, estranea ai coetanei bianchi per ragioni razziali e a quelli neri per scelte culturali: la peculiarità del personaggio e i suoi tormenti sono evidenti già con pochi cenni biografici.
Il film segue Eunice a New York, allieva della prestigiosa Juilliard School, e a Philadelphia, dove non viene ammessa al Curtis Institute per il colore della sua pelle, prima delusione che formerà in lei una coscienza politica sempre più radicale. Ad Atlantic City Eunice lavora in bar malfamati e cambia, per tenersi in incognito, il nome in Nina Simone – omaggio alla Signoret – ma appena si siede a un pianoforte e inizia a cantare attorno a lei si crea un silenzio stupefatto. Tra gli anni Cinquanta e i Sessanta Nina trova successo, fama, denaro, amore. È la prima pianista nera ad esibirsi alla Carnegie Hall, ma si rammarica di non poter eseguire un recital classico. Mai contenta, mai soddisfatta, mai libera come avrebbe voluto e sperato, bulimica di soldi, di sesso, di musica.
Nina però cambia vita quando i quotidiani omicidi a sfondo razziale che insanguinano il Sud scuotono la sua coscienza. Sono gli anni di Mississippi Goddam cantato alla marcia di Selma, delle frequentazioni con Malcolm X e Martin Luther King, delle amicizie con il gotha della cultura black degli anni Sessanta. Langston Hughes scrive per lei il testo di Backlash Blues e To Be Young, Gifted and Black, ispirata a un’opera teatrale di Lorraine Hansberry, diventa l’inno della controcultura giovanile di colore in rivolta contro il razzismo sociale nell’America già scossa dai venti di guerra del Vietnam. Sull’altare dell’impegno, dell’orgoglio nero, dell’idea che un’artista non possa vivere fuori dal proprio tempo e dai propri conflitti, Nina sacrifica carriera, famiglia, stabilità mentale.
Lei, che aveva fatto della libertà, umana e musicale – inserendo fughe e contrappunti nella grammatica del jazz e del soul – una bandiera di vita, si dimostra incapace di contenere le proprie energie e le proprie contraddizioni: lascia gli Stati Uniti e la figlia per cercare pace in Africa, in Europa, alle Barbados. Non suona quasi più: anche la musica sembra diventata una prigione. Approda in Olanda, dove le viene diagnosticato un disturbo bipolare con crisi maniaco-depressive. Trova però la forza di reagire, di rimettersi a cantare, di affrontare un pubblico che non l’ha mai dimenticata, di ripensare ai concerti.
Il film di Arbus, con canonico affetto, la segue fino a qui, lontana dal suo paese mai amato e dalla figlia abbandonata troppo presto, rallentata dalle medicine e delusa da un mondo che non ha fatto la rivolta, politica e culturale, che sognava. Ma quando, appesantita dagli anni e dal dolore, introduce la canzone che, grazie a una pubblicità, le ha donato una seconda ondata di successo negli anni Ottanta, My Baby Just Cares for Me, gli occhi le si illuminano ancora: «I have suffered. But there’s a Bösendorfer here. We’ll see what happens». Finché c’è un pianoforte c’è speranza, sembra dirci, e la sua voce, meno potente e più incerta di un tempo, ci ricorda comunque che Nina Simone è stata una delle personalità più emblematiche e uno dei musicisti più rivoluzionari che la cultura americana del Novecento ha saputo regalarci.