Guardando Chuck Norris vs. Communism, trasmesso da Netflix nelle scorse settimane, torna in mente il film Patul conjugal di Mircea Daneliuc, in cui un viscido proprietario di sala cinematografica dei tempi di Ceauşescu tappezza le pareti del suo cinema di manifesti coi volti di Schwarzenegger, Van Damme e vari prototipi del virilismo machista dell’epoca. Quei simboli che la civiltà occidentale d’oltreoceano ha imposto negli anni Ottanta, capisaldi dell’immagine fondata sul principio che muscoli e steroidi siano indispensabili coefficienti di un disegno costruito sulla forza. Il desiderio coatto del Paese di rispecchiarsi e confrontarsi con icone di culturisti ipervitaminizzati (e magari imitarne gesti e posture) che concilia con la volontà di sconfiggere il tiranno.
E se culturismo e feticismo anni Ottanta avessero avuto un ruolo determinante nella disfatta del conducător? Certo è che il cinema romeno si è occupato in tempi recenti di televisione, attento a non trascurarne gli aspetti più intriganti, dalla parossistica funzione del medium al suo assorbimento. In A est di Bucarest o The Paper Will Be Blue, ad esempio, il senso di eroica rivalsa del Paese ambisce fa i conti con l’invadenza dello schermo televisivo: in Porumboiu c’è un amarcord scalcinato e fallimentare del 21 dicembre, in Muntean una rielaborazione dei fatti che il piccolo schermo diffonde senza trascurare il minimo dettaglio. Se si aggiunge che un altro tema ricorrente è il parallelo tra cultura progredita e voglia di emancipazione, il film di Ilinca Călugăreanu mira a un obiettivo specifico: la ripetizione di qualcosa che lo spettatore straniero ha in realtà già compreso da tempo.
Lo spettatore italiano assiste divertito alle testimonianze dei romeni che affermano quale gioia costituisse veder sfilare i corpi e volti di Stallone, Richard Gere, Tom Cruise, David Hasselhoff, Mickey Rourke o il Brando di Ultimo tango a Parigi. E allo stesso tempo quasi dimentichiamo come i disegni politici demagogici del “Geniul din Carpaţi” facevano di tutto per segregare i simboli del capitalismo e della modernità occidentale. Una contraddizione svelata da un inserto in bianco e nero, in cui Ceauşescu in persona strilla che il Paese può crescere libero e progredito attraverso l’arte, la letteratura, le forme di espressione e pensiero in generale. Il pubblico romeno di allora poteva recuperare le immagini dei suoi idoli attraverso videotape pirata, ma gli organi di partito facevano in modo d’impedirne la divulgazione, addirittura presentandosi in casa della gente e sequestrando brutalmente i nastri (c’è chi ricorda che anche il figlio del dittatore fosse ingolosito dal traffico di vhs, e se ne facesse spedire alcune).
Le persone comuni incontrate da Călugăreanu – cresciute a pane e culturismo, azione e sesso facile – restituiscono il quadro dello spirito e del pensiero di una nazione che, assistendo alle tendenze e alle nevosi delle superpotenze, può aver preso a esempio ciò che vedeva e si preparò al grande passo. E non importa che del pubblico facciano parte anche spie pronte alla soffiata: controllati e controllori sono uniti e pronti all’inevitabile rottura. È questo l’aspetto più suggestivo di Chuck Norris vs. Communism, il duplice binario della riflessione sul mezzo e lo sviluppo culturale.
Né si possono dimenticare gli eroi di tale exploit, teso a fendere i precostituiti, deliranti schemi di Potere: Irina Margareta Nistor, la doppiatrice standard del mercato romeno (e l’unica in circolazione), bionda dai grandi occhiali e voce sinuosa; e Teodor Zamfir, colui che come in un’apparizione da opera spionistica corruppe funzionari di Partito e doganieri per la circolazione di cassette che permisero a un popolo di evadere da una cultura trionfalistica e avviluppata su sé stessa. Il risultato concepì un lavoro di doppiaggio di tremila film americani e portò milioni di romeni dove non potevano arrivare, mostrando loro ciò che non osavano immaginare.
La ricostruzione di come avvenne l’incontro, e di ciò che ebbe luogo in sale d’incisione filmate tra ombre nere e luci soffuse, rientra nell’operazione docu-fiction ed è l’aspetto più labile e didascalico del film. A uscire vittorioso è il parallelo tra due antitetiche idee di eroe: al modello del Partito, tutto chiacchiere e smanie di grandezza, si contrappone quello fiabesco ma reale, seguace del sogno e della modernità, salutato come “la seconda voce romena dopo Ceauşescu”, cui un mixer, un paio di cuffie e un microfono bastano a fare della Romania una plausibile isola di libertà.
Cose che nella Romania attuale, ormai libera dal tiranno ma non dal bisogno, giungono come un’eco vintage riconducibile a un’epoca lontana – ma nemmeno troppo – da ricordare con (poca) rabbia e (tanta) nostalgia.