Se l’amore è una danza, sembra dire Valérie Donzelli in Main dans la main (suo terzo lungometraggio del 2012, proiettato nelle scorse settimane al Cinema Massimo di Torino), i suoi passi stanno in precario equilibrio fra la grazia, il sacrificio, il rigore del balletto classico e i movimenti scomposti e buffi di due ballerini improvvisati che amano esibirsi in un ospizio di provincia.
Dopo aver “cantato” l’amore di due moderni Romeo e Giulietta e la tragedia del loro bambino in La guerra è dichiarata, la regista piega l’improbabile storia d’amore fra un uomo e una donna diversissimi fra loro alle coreografie di un balletto vitale e divertito. Il movimento degli attori, in sintonia con quello della macchina da presa, realizza così una commedia ai cui siparietti slapstick partecipa, insieme ai due protagonisti, l’intera piccola comunità che gravita loro intorno: parenti, amici, figli, colleghi, vicini di casa, spesso ridotti a ballerini di fila, colorate figurine bidimensionali.
Giocando col filo invisibile che tiene legati loro malgrado (ma sarà davvero così?), per una sorta di ‘incantesimo’, l’austera direttrice della scuola di danza dell’Opéra de Paris e un giovane vetraio male in arnese, la macchina da presa della Donzelli, mobilissima e veloce nel suo ritmo sincopato, raddoppia i gesti dei suoi protagonisti e li fa riverberare l’uno nell’altra come davanti a uno specchio, MacGuffin, quest’ultimo, dell’intera vicenda.
Spesso inquadrati frontalmente, a coppie, mentre si esibiscono in veri passi di danza o in movenze che ricordano la gestualità di un mimo, i personaggi di questa fiaba d’amore sembrano materializzare soprattutto l’idea che il sentimento d’amore sfugga al nostro controllo, che sia una forza pazza più strampalata delle sue stesse vittime. Uomini e donne che, quando non compaiono in inquadrature insieme con il loro ‘doppio’ sentimentale, raramente sono presenti nel piano a figura intera, come fossero solo “pezzi” di loro stessi, monconi, mai interamente presenti nella situazione. Joachim per primo, se non veleggia sul suo skateboard o non è “trascinato” dalla foga di Hélène, vagabonda con la mente, mai presente nel qui e ora, in un altrove onirico.
L’esile linea narrativa del film, poi, è arricchita dall’autrice con l’intero repertorio delle idee sull’amore che la animano: uomini e donne, anche se fratello e sorella, stabiliscono legami viscerali (il vetraio Joachim, intrepretato dall’ex fidanzato e sodale della Donzelli, Jérémie Elkaïm, vive in casa con la famiglia della sorella, che saluta baciando sulla bocca; la sorella Véro a sua volta, interpretata dalla stessa Donzelli, si ingelosisce del suo strano rapporto con Hélène…); amore e morte sono un binomio eterno che caratterizza ogni tipo di rapporto, pure quello velatamente omosessuale tra Hélène e la sua acida spalla comica Constance; i bambini, frutto dell’amore (in un cameo, anche il figlio della coppia di attori, scampato a una dura malattia nella vita reale e nel precedente La guerra è dichiarata), sono gioia vitale…
Tanti, troppi ingredienti la cui fusione denuncia la mancanza di un’unità solida e compatta dello script. Se pure il film sfida in modo surreale il tarlo di ogni relazione di coppia, vale a dire la noia del quotidiano intesa come essenza stessa dell’amore, simbiosi che rende significativo un rapporto anche nell’incomunicabilità e nelle incomprensioni, il gioco della Donzelli non riesce appieno. Restano il ritmo indiavolato dei balli di sala o la melanconia delle note struggenti di un passo a due, sostenuti dal concetto simbolico farsesco del non potersi lasciare e da una constatazione di fondo dolceamara: ci sono coppie che non si lasciano, semplicemente perché non riescono a separarsi.