Nelle parole di David Lynch, black has depth, il nero ha profondità. Una profondità dove ci si può fare largo con la forza della pura immaginazione, addentrandosi in un tunnel che può, a quel punto, portare ovunque.
Vado a visitare David Lynch: the Factory Photographs - una raccolta di sue fotografie in bianco e nero scattate tra il 1980 e il 2000, in esibizione al Mast di Bologna fino al 31 dicembre – aspettandomi una mostra di archeologia industriale. Mi ritrovo invece davanti a un lavoro di fenomenologia mentale: sotto lo sguardo di Lynch le fabbriche dismesse diventano spazi misteriosi ed arcaici, anticamere dell’immaginazione, sale d’aspetto per viaggiatori della mente.
Luoghi tenebrosi, immersi nella penombra, rischiarati da un’illuminazione precaria; dove però è possibile scorgere, non di rado a margine dell’ambiente rappresentato, un riquadro segnato dall’intensità della luce, oppure, all’opposto, dall’oscurità più totale. Una finestra, un pertugio, un varco: il vero punto focale dell’immagine, perché è da lì che si l’ha impressione siano stati risucchiati fuori tutti coloro che un tempo, in luoghi come quello, lavoravano e sudavano, catapultati verso mondi fantasmagorici che nessuna fotografia e nessun film riuscirà mai a descrivere.
È per questo che Lynch, nel suo ossessionante desiderio di raccontare l’aldilà, se ne sta sempre rigorosamente al di qua. In oltre cento fotografie, mai lo straccio di una figura umana; ma nello stesso tempo, in oltre cento fotografie, sempre la sembianza di un’assenza, il sentore di una presenza che abbiamo mancato per un istante.
Siamo arrivati troppo tardi – questo ci dicono le fotografie: un attimo prima e avremmo assistito al miracolo di un uomo di fatica che, attraverso quel pertugio di insostenibile purezza, assoluto nella luce oppure nella sua assenza, prende il volo verso universi dove la ruvida concretezza del suo lavoro si trasfigura in qualcosa di immateriale, misterioso e fragile come un miraggio.