Tratto dalla pièce teatrale di Larry Kramer, The Normal Heart, produzione HBO trasmessa da Sky Cinema in prima visione italiana la sera del 22 settembre, si pone sulla sensibile scia già tracciata da Philadelphia e da Dallas Buyers Club (e da una moltitudine di altri titoli, non tutti particolarmente memorabili, tra cui Una gelata precoce, Un party per Nick, una sorta di Fedone platonico visto attraverso il diaframma virale dell'HIV, Che mi dici di Willy?, che condivide con The Normal Heart il periodo di ambientazione).
Il creatore di Glee, Nip/Tuck e American Horror Story, Ryan Murphy, adatta e dirige, mostrando l'incubo del contagio nei primi anni Ottanta, nell'epoca pre-Rock Hudson, quando ancora si pensava che l'Aids fosse una sorta di nemesi del mondo omosessuale. E lo mostra raccontando la battaglia condotta dal sanguigno scrittore Ned Weeks (Mark Ruffalo) all'interno di un'eterogenea associazione nata per sensibilizzare opinione pubblica e istituzioni sul reale problema di una malattia sottovalutata, pronta tuttavia a mietere vittime come una pestilenza biblica.
Pur cadendo quasi fatalmente in una serie di stereotipi vacillanti tra il grottesco e l'offensivo (secondo la suscettibilità dello spettatore: per esempio le feste in bianco sulla spiaggia - e ciò che ne consegue - su scatenate cadenze disco dance come immagine dell'innocenza prossima a essere perduta) e indugiando talvolta in toni da survival movie, The Normal Heart presenta una ricchezza che deriva soprattutto dall'intersecarsi di più aspetti tematici, pronti a sovrapporsi e incrociarsi, scongiurando l'eventualità del facile predicozzo edificante e l'ombra lunga del didascalismo.
Attraverso l'azione decisa, talvolta rabbiosa, spesso frustrata ma sempre generosa di Weeks, si sollevano alcuni precisi problemi circa lo smarrimento di una precisa identità della comunità gay all'inizio degli anni Ottanta, dopo la sbornia di progressiva autoaffermazione del decennio precedente.
In un film che trae la sua forza dall'incedere dei dialoghi, una sequenza più di altre appare indicativa di questa montante frustrazione del disorientamento. Mick, uno degli attivisti, sconfortato dall'atteggiamento aggressivo di Ned nei confronti dei rappresentanti delle istituzioni, si lascia andare a uno sfogo disperato contro il virus, la cui natura polimorfa, oltre che letale per gli affetti persi rapidamente, sgretola certezze acquisite e conquiste ottenute con la lotta, per generare paranoia, vittimismo e depressione. Un senso di fine incombente è sottolineato dall'instabilità nervosa della macchina da presa fissa sul volto alterato di Mick, e dalla scelta di un obiettivo a focale lunga per smorzare la nitidezza dello sfondo, che isola l'individuo nella sua crisi personale e lo sradica sintomaticamente dal conforto solidale di una comunità, preda di ferali dubbi e coinvolta in insanabili contrasti.
La questione preponderante dell'identità ingloba anche gli altri aspetti sollevati, come la costante del conflitto, autentico asse di sviluppo dell'intera vicenda narrata, divisa dicotomicamente fra comunità omosessuale e resto della società civile, tra contagiati e sani, tra sinceri sperimentatori (la dottoressa Brookner interpretata da Julia Roberts) e affaristi senza scrupoli, tra membri della stessa famiglia divisi dall'orientamento sessuale e, come detto, tra idee di condotta antitetiche all'interno dello stesso movimento.
Più criticamente, il concetto dell'identità tocca anche il principio dell'occultamento, che in The Normal Heart non è soltanto incapacità di palesarsi con un liberatorio outing (il personaggio di Bruce, contemporaneamente primo presidente dell'associazione e graduato dell'esercito), ma soprattutto l'impossibilità del governo di ammettere e accettare l'epidemia in corso, in un drammatico gioco di specchi tra personalità individuale e azzardata rimozione nazionale. Solo dopo aver manifestato questi aspetti, evitando così le pastoie di un fosco e scontato melodramma, il film di Murphy è (anche) una storia d'amore. Un sentimento che nasce da sguardi alla ricerca di conferme, si fa passione, dedizione totale, sacrificio, paura e distacco. E si trasforma, infine, in lacrime solitarie sulle note malinconiche di The Only Living Boy in New York di Simon e Garfunkel.