«Elisabetta è l’icona più tradizionalista e contemporaneamente sovversiva della modernità, che la sorpassa e la reinventa; che viaggia dentro e attraverso il tempo, riuscendo a trascenderlo pur rimanendo in sostanziale immobilità», scrisse il poeta Philip Larkin nel 1977, in occasione del Giubileo d’argento di Elisabetta II, citato nel libro di Anna Maria Pasetti Dio salvi la regina!, uscito con Bietti nella collana Fotogrammi (disponibile in formato kindle a 2,89 euro e in formato cartaceo a 4,99 euro), nel quale l’autrice esamina la valenza simbolica e iconologica di Elisabetta II attraverso una serie di passaggi “mediatici” e l’iconografia ufficiale e ufficiosa (gli scatti “privati” con cui la Royal Family si è concessa al pubblico) e, naturalmente, i film (documentari e di finzione) che l’hanno vista protagonista.
Giorgio VI, re del Regno Unito, morì il 6 febbraio del 1952. Lo stesso giorno, la figlia maggiore, Elizabeth Alexandra Mary, divenne regina. Era in Kenya, tappa di un lungo viaggio ufficiale nel Commonwealth insieme al marito principe Filippo. Scelse di regnare con il proprio nome e, su consiglio della nonna Maria von Tek e del primo ministro Winston Churchill, di conservare alla casa reale il cognome Windsor piuttosto che adottare quello del marito (Mountbatten). Cominciò così il regno più lungo della storia: settant’anni, quattro di più di quello, che già pareva lunghissimo, della trisnonna Regina Vittoria.
Quest’anno, da febbraio fino al culmine, a giugno, di quattro giorni di cerimonie e festeggiamenti diffusi, si celebra il Giubileo di platino. Elisabetta ha novantacinque anni. Filippo è morto lo scorso aprile, poco prima di compiere centouno anni. Più di settant’anni di matrimonio, al centro di una famiglia sentimentalmente molto inquieta (a partire dallo zio Edward, che abdicò per amore di una signora divorziata, segnando così il destino regale della nipote), tra divorzi, scandali, tradimenti, memoriali, cui però la Regina ha sempre conferito un’impronta, appunto, “regale”, dribblando crisi che parevano definitive (la morte di Lady Diana) e Primi Ministri devastanti (Thatcher, per esempio), restando immobile mentre, piano piano, modificava l’immagine della monarchia.
Aiutata in questo dal gusto per l’innovazione, per il volo, per la comunicazione di Filippo, che fu il primo a suggerire l’ingresso delle telecamere a cerimonie ufficiali e private: dalla BBC che riprende e trasmette in diretta l’incoronazione di Elisabetta nel 1953, (20 milioni di spettatori britannici, più la registrazione in differita ai paesi del Commonwealth) al documentario Royal Family, che la BBC girò nel 1969, nell’arco di un anno, negli spazi privati dei Windsor e che di loro offriva una rappresentazione talmente media da risultare controproducente. «Essere troppo normali era pericoloso come essere troppo diversi», disse la regina, e il documentario fu in fretta insabbiato.
Ma l’immagine di sé, sottilmente, impercettibilmente rielaborata nel corso dei decenni da Elisabetta II, è diventata, se possibile, ancora più forte. Atemporale, quasi a-monarchica, un mito collettivo (non solo britannico). Come aveva capito al volo Andy Wharol, collocandola anzitempo tra le proprie icone, o le diverse serie comiche (in animazione e non) che ne hanno fatto un personaggio fisso. Senza che la sua dignità ne sia stata sminuita rispetto, per esempio, ai francobolli istituzionali o al merchandising ufficiale.
Fino ad arrivare alla magnifica serie The Crown (della quale si attende la quinta stagione, con Imelda Staunton che succede a Olivia Colman) e all’impareggiabile cortometraggio Happy and Glorious di Danny Boyle, nel quale con aplomb incorruttibile e notevole sense of humour proprio lei (a parte la stuntwoman che la sostituisce al momento del lancio con il paracadute) precede Mr. Bond, James Bond all’Olympic Stadium del Queen Elizaberh Park, per l’apertura delle Olimpiadi londinesi del 2012. La classe non è acqua e il suo è stato veramente «A job for life», come le aveva preannunciato, ancora una volta, la ferrea nonna Maria von Tek.