Maurizio Zaccaro, autore di La scelta - L'amicizia, il cinema, gli anni con Ermanno Olmi (Vallecchi, Firenze, 2021, pp. 192, 16 €), conosce Ermanno Olmi nel 1978. A fare da tramite è Attilio Torricelli, "il Torri", come lo chiamava lui, direttore di produzione ma quando occorreva anche fonico, elettricista, macchinista. Ingaggia il ventenne allievo della Scuola del Cinema di Milano come uomo di fatica, nella piccola troupe dell'inchiesta RAI Quando è arrivata la televisione, a girare l'Italia su un vecchio furgone che sembrava uscito dalla DDR.
«Mi ricorderò sempre il giorno che sei salito per la prima volta sull'Opel Blitz, eri sorridente, felice, guardavi tutto con due occhi così: un bambino che andava per la prima volta alle giostre...», gli avrebbe poi ricordato mille volte il regista, allora fresco della Palma d'Oro per l'Albero degli zoccoli.
Comincia un sodalizio, di vita e di mestiere, che si concluderà con il magnifico Torneranno i prati e con la morte del suo autore. Senza quei «fronzoli e quegli attaccamenti al passato che Olmi avrebbe sicuramente detestato», Zaccaro racconta quarant'anni di amicizia e collaborazione, apprendistato e magistero, ma parla ovviamente anche di se stesso e del suo cinema, da In coda alla coda a Nour. Con «un senso preciso della scansione narrativa», come scrive Emanuela Martini nella densa introduzione, rievoca la sua prima, vera partecipazione, come sceneggiatore ma anche come disponibile tuttofare, sul set di Camminacammina.
Da quel momento, l'Alfiere, come era solito chiamarlo il Maestro, divide con lui gli alti e bassi del mestiere, a partire proprio dai problemi e le incomprensioni che incontrò l'anomalia di un film che metteva in scena dei Magi certamente non da presepe. Altro momento sul quale Zaccaro non a caso si dilunga, la presentazione di Milano '83, documentario assai poco celebrativo, dal quale usciva l'immagine di un metropoli «dai mille cantieri, polverosa, buia, nebbiosa, respingente...una città mefitica, ben poco da bere», che irritò la nomenklatura meneghina a partire dal sindaco Tognoli, che spiritosamente dichiarò alla stampa che era ora che Olmi scendesse dall'albero degli zoccoli, salvo poi fare ammenda molti anni dopo.
Solo due esempi, che comunque riescono ad essere significativi di un'etica della rappresentazione mai corriva, fondata su tre cardini: originalità dell'idea, novità nei modi e libertà d'espressione. Gli stessi su cui poggiava Ipotesi Cinema, la scuola di Asiago in cui il regista non insegnava ma «raccontava il cinema, e con esso la vita», dove non si pagava la retta e l'accesso era aperto a tutti.
La scelta ricorda anche tanto altro di Olmi: l'indole aperta alla convivialità («Quella schietta, caratterizzata dalla consapevolezza che essere conviviali non prevede differenza tra i convitati») ma anche l'indignazione(«Ci ritroviamo tutti in balìa dell'incasinamento generale, travolti e stravolti da un delirio di paranoia») e il rigore («Basta con il cinema contastorie, documentiamo con le immagini il disastro»), la malattia («Le malattie gravi che non ammazzano migliorano... Forse perché la malattia ti aiuta a prendere le misure delle cose, a capire quali sono importanti e quali no») e la morte («Se ho lasciato una buona memoria nelle persone a cui ho voluto bene, tutti costoro mi vorranno bene e io avrò dato un significato alla mia vita»).
E un'idea precisa, nella sua solitaria nobiltà, sulla funzione del cinema: «Il film è un prototipo e come tale un bel viaggio nell'utopia... Non abbiamo altra scelta che l'utopia. E chissà che l'utopia, come atto di fede, non rallenti in qualche modo il disastro».