È la violenza, è il dolore della ferita che marca il lungo processo d’iniziazione all’età adulta dei giovani come Kwanda, cresciuto in Sudafrica, tra gli agi della vita in città, e suo malgrado protagonista di questo rito primitivo, affidato alle cure di Xolani con l’accusa di essere “too soft”, troppo delicato, in quelle montagne selvatiche dove il tempo sembra fermarsi e le giornate ripetersi continuamente e costantemente uguali a se stesse.
La ferita del titolo pare una necessaria sorta di catarsi, un’infusione di virilità, capace, attraverso la sofferenza e la guarigione fisica, di operare sui giovani una magica metamorfosi in uomini maturi. Perché solo il dolore, il sacrificio e il duro lavoro di una vita quasi selvaggia, vissuta tra una capanna di paglia e una foresta disabitata, può generare figure forti, requisiti basilari dell’esistenza comunitaria nel villaggio. Come asserisce la voce dell’anziano a conclusione dell’iniziazione, è infatti doveroso rifiutare tutti i “modi della città”, dunque ripudiare gli agi e i vizi dell’innovazione a favore della tradizione, della vita più semplice e naturale, in un movimento a ritroso che corre parallelo e opposto rispetto alla crescita spirituale dei giovani iniziati.
È precisamente sulla base di opposizioni e dicotomie fondamentali (e fondamentalmente inconciliabili) che si costruisce il film – «sono ancora vivo» dichiara l’uomo che ha abbandonato il villaggio per la città –, a partire dall’accostamento formale tra il linguaggio patinato delle riprese fisse sull’ambiente incontaminato dei prati e delle cascate e sui momenti puri e sinceri della storia di Xolani, e lo stile documentario della macchina a mano, che sembra, illusoriamente, testimoniare attimi “del reale” in quei totali delle cerimonie che aprono e chiudono il film, che incorniciano la transizione di Kwanda e degli altri ragazzi così come la storia parallela dei due “caregiver”, nei loro incontri segreti annuali e nel comune terrore paralizzante di fronte ai propri desideri. Perché naturale, qui, è l’apparenza, non l’essenza – e l’uomo rifiuta ciò che non conosce e non comprende. Naturale e vero è quanto si crede tale: la transizione all’età matura dopo l’iniziazione piuttosto che in un graduale processo di crescita, la vocazione primaria dell’uomo coincidente con il matrimonio e la procreazione.
È questa la contraddizione documentata dalle riprese in movimento, dalla macchina a mano irrequieta che trasporta anche lo spettatore in quel cronotopo che è l’iniziazione, dove paradossalmente i giovani maturano ma il tempo è fermo e statico, perché rifiuta presente e futuro, in un patologico attaccamento ad un presunto passato “naturale” e genuino.
Ma la natura in The Wound è impietosa, è violenta. È la natura ardente e prepotente del fuoco piuttosto che quella dolce delle cascate. E riguarda innanzitutto l’attitudine tipicamente umana e profondamente contraddittoria di predominio del creato. Non c’è traccia di armonia tra i viventi, l’uomo sembra fatto per dominare e distruggere – sgozzare gli animali, abbattere gli alberi, ferire se stesso – per imporre la propria volontà sul mondo naturale, domandolo fino a modificare e reprimere la propria stessa indole, come mostra l’esemplare analogia tra il rapporto sessuale e il combattimento corpo a corpo. Perché la tradizione ha deciso cos’è giusto e cos’è sbagliato, e in un mondo dove tutto può essere solo, letteralmente, bianco o nero, “che razza di uomo” desidera un altro uomo?
Il “rifiuto” delle parole dell’anziano è allora la negazione di tutto ciò che esula dalla tradizione del villaggio, dal suo naturale, e alla fine – ed eternamente – è questo ad avere la meglio, con quel gesto estremo di violenza dominatrice che zittisce per sempre la voce della ragione, incarnata dallo stesso “soft boy” che si chiede “come può l’amore distruggere una nazione?”.
Dove tutto si ripete e nulla cambia, anche Xolani tornerà per sempre, ogni anno, tra le montagne, a rivivere i propri desideri e la propria natura violentemente repressa durante quelle due settimane – e poi di nuovo a cancellarli, come il fuoco sull’accampamento che distrugge i segni del passaggio umano.