Proviamo a vederla dall’altra parte. Ci siamo così tanto riempiti la bocca di inclusività e di trasparenza che nessuno, mi pare, ha pensato che effettivamente c’è, un’altra parte, di qua, e che è altrettanto decisiva.
Dunque. Le vicende dei Golden Globe, a seguito dell’inchiesta del Los Angeles Times del 21 febbraio, sono una delle innumerevoli e molto à la page beghe istituzionali che il sistema hollywoodiano della disposizione delle immagini ha creato per sé. I dettagli sono risaputi: d’un tratto l’assenza di neri nella corrotta HFPA (la Hollywood Foreign Press Association che ogni anno assegna i premi) ha destato scalpore, la NBC ha annunciato la cancellazione dello show di premiazione per il 2022, Tom Cruise ha restituito i suoi tre Globi vinti, Mark Ruffalo ha alzato la voce, tante altre voci si sono alzate, ognuno ha detto la sua (anche da noi, a partire dai social) e il processo per l’estrema democratizzazione dell’oligarchia culturale ha salito un altro gradino. Bene, pane per i denti di entrambe le barricate: chi con le prediche si batte abbracciato all’America tutta in nome di un colpo di spugna e per cambiare le cose ha salutato l’avvenimento con i consueti applausi di circostanza; chi al contrario non ne può più dell’ipocrisia di un criterio modulare fondato prevalentemente sull’uso incondizionato dell’aspirapolvere, per di più in un Paese che già di suo si bea di un’eterna riproduzione dell’identico, non ha potuto far altro che prenderne atto, perplesso. Insomma, niente di nuovo, tanto che poco dopo, il 25 aprile, tutto si è replicato alla consegna degli Oscar (ricordate?: la regista donna premiata, gli interpreti neri premiati, la vittoria dell’ipocrisia per alcuni, un passo in più per piegare lo status quo e guardare avanti per altri etc.).
Ma come la mettiamo con gli spettatori? E con la critica? Aspettate, mi spiego. Se adesso un personaggio omosessuale o appartenente a una cosiddetta minoranza deve essere inderogabilmente rappresentato (e quindi interpretato) da “uno di noi” o da “uno di loro”, pena quando va bene la disapprovazione e quando va meno bene la stigmatizzazione inquisitoria (andatevi a rileggere le dichiarazioni di Russell T. Davies in occasione del lancio del suo peraltro penoso It’s a Sin), per quale motivo un film gay – scritto, diretto e interpretato da gay, ci mancherebbe, altrimenti sarebbe una menzogna – dovrebbe essere capito, compreso appieno, analizzato, discusso e riflettuto da chi gay non è? Analogamente: perché i critici bianchi dovrebbero recensire i film sulle problematiche razziali più contemporanee? Cioè, cosa potrei veramente afferrare, io, critico bianco, cinquantenne, gay e completamente straniero rispetto a quella geografia e a quella Storia, di un’opera come La ferrovia sotterranea? Ancora, similmente: cosa potrebbe davvero intendere una donna eterosessuale di Estate ’85? E una spettatrice lesbica, lo potrebbe cogliere, il film di François Ozon, o sarebbe per sua natura limitata alla parzialità e, a conti fatti, al ridimensionamento di significato?
Parliamoci chiaro: se oggi per Hombre la star Paul Newman subirebbe un linciaggio mediatico senza attenuanti (e pensare che all’epoca si trattava di un film impegnato che portava la firma di uno dei cineasti più impegnati, Martin Ritt), chi l’ha detto che non dovrebbe essere biasimato il critico maschio appartenente all’élite patriarcale che scrive di Ritratto della giovane in fiamme? Come potrebbe capire, lui, tristemente impedito dalla sua stessa condizione di egemonia virile, tutte le suggestioni di sesso del dramma di Céline Sciamma? Ricordo perfettamente un critico di un quotidiano di provincia, sposato, profondamente white e vagamente autoritario, che alla presentazione alla Mostra di Venezia di Il fantasma di João Pedro Rodrigues non trovò di meglio che domandarsi, scripta manent, cosa ci facesse lì un film così invece di stare comodo al festival gay di Torino. Allora fui non meno che sconcertato da una tale miserabilità, gretta, sessista e omofoba, tuttavia adesso sarei più moderato: e se nella sua ignoranza patetica e commiserevole quel critico non avesse fatto altro che testimoniare la propria inadeguatezza di genere di fronte a un film così prepotentemente queer? Non poteva recepirlo, non poteva sentirlo, e probabilmente lo sapeva. D’altronde, scusate, cosa può vedere verosimilmente un critico eterosessuale o una critica in Lo sconosciuto del lago?
Ci rendiamo conto che si tratta di un circolo morbosamente vizioso? Che non è morale, o inclusività, o rivoluzione, bensì impasse estetica? Perché a ragionare in questo modo manca poco all’abiura del buon gusto e alla censura preventiva e aprioristica di coloro che non ne fanno parte, di chi non c’è, di chi non c’era, di tutti quelli che non sono. Perciò chi non ha vissuto la guerra non può né rappresentarla né – figuriamoci – immaginarla (hai voglia ad allegare gli alibi dei documenti); chi non ha conosciuto la povertà non può illudersi di descriverla; chi uomo non ha mai baciato un uomo non potrebbe mai sapere come si fa, sarebbe una finzione, sarebbe un’onta irrispettosa di tutti gli uomini che vivono felici baciando altri uomini (e che magari subiscono per questo il linciaggio).
Non c’è niente di nuovo. Ai tempi di Cruising il regista William Friedkin fu perseguitato perché, secondo la cancel culture (che c’è sempre stata, ma non aveva le casse di risonanza odierne), non sapeva di cosa stava parlando. E Happy Together sarebbe in fondo una frottola, perché soltanto uno dei coinvolti era gay (e ci è pure morto, per la paura di rivelarsi), tutti gli altri no. Ma quale modernità? Quale progresso? E non è neppure presa di coscienza del presente. Cambiare le cose non significa rinunciare all’invenzione. Da sempre, da quando ho deciso che il cinema è la mia fortuna, io credo di più a un trucco che alla fedeltà razionale dell’identità. La pelle da sola non garantisce un cuore: è una proprietà, ma non è automaticamente un sentimento. Se non esiste un’unica verità (e su questo credo siamo tutti d’accordo, quanto meno a proposito delle immagini), vorrei tanto che il cinema potesse ancora rivendicare il suo potere assoluto di creare. Senza che nessuno sia pronto a giustiziarlo in caso di mancata aderenza al reale o di assenza sostanziale. E alla larga da facili recrudescenze reazionarie e da boomer. Non mi sognerei mai di additare astioso chi vede e scrive di un film di Bruce LaBruce ma che non ha mai goduto nel praticare una fellatio: eppure, rispetto a gay o omosessuale, ho sempre preferito essere chiamato frocio, oltre che con il mio nome.