It’s a Sin è una bella serie Tv creata, scritta e prodotta da Russell T Davies (un po’ più di controllo nel reparto musica&lacrime l’avrebbe resa molto bella), il cui tema non proprio originalissimo – l’esplosione dell’Aids all’interno della comunità gay nel corso degli anni Ottanta – va però incontro a uno svolgimento felicemente a distanza dalla più trita versione (etero) del martirio gay: Davis, che basa la sceneggiatura dei cinque episodi trasmessi da Channel 4 tra gennaio e febbraio sulle proprie esperienze autobiografiche nella Londra dell’eccentricità camp, è interessato piuttosto a esplorare i meccanismi psicologici del rifiuto (che, soprattutto in una prima fase, orientarono la reazione di non pochi omosessuali; oggi si direbbe negazionismo) e le tante, diverse responsabilità – politiche, sociali, istituzionali ecc. – che contribuirono a ritardare il riconoscimento e l’elaborazione culturale dell’Aids.
Il secondo e il quinto episodio fanno esplicita teoria dei due aspetti, e il personaggio che li dimostra e vive entrambi è il protagonista, Ritchie Tozer, interpretato dal polivalente Olly Alexander. Ritchie arriva a Londra quando ha 18 anni, nel 1981, scopre la città e se stesso, esorcizza a suon di festini e sesso il senso di colpa cresciuto dentro di lui negli anni dell’adolescenza in una famiglia piccoloborghese e patriarcale (sull’Isola di Wight) e va a vivere con quattro amici (tre ragazzi diversamente gay, Roscoe, Colin, Ash, e la migliore amica etero, Jill) in un appartamento ribattezzato The Pink Palace. Poi, appunto, ecco l’Aids, che all’inizio non si sa neppure come chiamare, che all’inizio non si capisce neppure che cos’è, che all’inizio sembra una malattia solo americana – Ritchie è convito che l’HIV si stato creato in un laboratorio, in Russia, mandato da Dio; “a Londra non arriverà mai”. Ma invece arriva, anche in fretta, e altrettanto in fretta It’s a Sin si trasforma nel racconto di come l’Aids prende posto nella quotidianità dei suoi protagonisti e, in alcuni casi, di come entra loro in corpo, condannandoli. E poi – tema della responsabilità – di come la malattia, che debutta come “il cancro dei gay”, diventa poco dopo la malattia degli anni Ottanta e, infine, una malattia.
It’s a Sin, grazie soprattutto al personaggio di Jill, l’amica di Ritchie, è anche questo – anzi, soprattutto questo: il racconto, al confine tra cronaca e scienza, del timido e poi prepotente esplodere di una malattia contagiosa e mortale, nuova e misteriosa, che isola i malati e impone distanze di sicurezza e guanti e mascherine, che alimenta scetticismo e paranoia, che galleggia in un mare di disinformazione, che genera atteggiamenti di ripiegamento e rivolta, che cambia la quotidianità e rende pericoloso ciò che prima era innocuo (“Sei contagioso?” chiede la madre di Ritchie al figlio prima di abbracciarlo).
Soprattutto questo? Concepito diversi anni fa, e messo in produzione nel 2019, It’s a Sin non ha niente a che vedere con la pandemia da Coronavirus. Eppure, guardando la serie, non c’è un solo momento in cui la storia della malattia che esplode improvvisamente nella vita di Ritchie e compagni non sembri parlare anche, anzi, proprio di quello, non sembri riferirsi anche, proprio a quello. Davies, che evidentemente (cioè: storicamente) si è trovato suo malgrado invischiato nella relazione a distanza, interrogato in proposito ha risolto in modo assai banale: «La storia ripete se stessa. Eccoci di nuovo ad affrontare la stessa cosa». No, la storia non ripete mai se stessa, o se lo fa è con grandi, profonde differenze che solo una certa pigrizia intellettuale spinge in secondo piano (è più difficile elaborare la dissomiglianza). L’Aids non c’entra assolutamente niente col Coronavirus, e proprio una serie come It’s a Sin – giustamente sbilanciata sul mondo omosessuale, il senso di colpa, la sessualità, gli anni Ottanta, l’ipocrisia piccoloborghese ecc. – lo dimostra pacificamente.
La questione è un po’ più complicata e interessante, ha a che fare con il nostro sguardo e il nostro immaginario e avrà effetti a lungo termine dentro e fuori le rappresentazioni di cinema e Tv (nessun vaccino disponibile se non un certo, involontario e inevitabile grado di oblio). È qualcosa che ha origine all’incrocio tra esperienza vissuta e esposizione quotidiana al racconto visuale dell’esperienza, e che somiglia a una specie di “vedere doppio” (quello che Clément Chéroux chiama “diplopia”, anche se con un significato leggermente diverso): una condizione sfumata – più dell’analogia, più della similitudine – del tipo “avere a che fare con”, che prende forma nell’immagine per diventare visione onnipresente; qualcosa di simile alla permanenza ineliminabile di un palinsesto iconografico e narrativo (una specie di irriflessa retroproiezione in fondo al nostro sguardo) che, come un velo di polvere o una trama sfocata, inchioda le immagini a una somiglianza accidentale ma inaggirabile, a un senso in più che non solo si aggiunge ma finisce, al limite, per tradire la sensatezza originaria di fatti e racconti. È in questo senso aberrante, sbagliato, fuorviante – perché, letteralmente, porta fuori strada, ma non su una strada sbagliata – che It’s a Sin è una serie sulla – “che ha a che fare” con la – pandemia da Coronavirus.
Avere a che fare con, per l’appunto: non essere un film o una serie tv sulla pandemia globale che da un anno circa ha riscritto la quotidianità di ciascuno di noi, ma non poter non essere (anche) un film o una serie tv sulla pandemia, non poter non sfiorare l’argomento, non poter non evocare la storia e il dramma – la doppia negazione suggerisce benissimo una forma di prigionia. Tra le tante chiusure che la diffusione del Coronavirus ha imposto, quella dell’immaginario è sicuramente la più potente, nonché quella destinata a durare più a lungo. Chiusura su certe associazioni di immagini, temi e parole (e la loro banalità iconografica e concettuale) che finiscono per ingigantire il dettaglio (ciò che in passato sarebbe stato poco più che un dettaglio), sfrondare la complessità, deviare il gioco del senso e dell’interpretazione: l’avere a che fare con, del resto, non è una qualità dei testi quanto, piuttosto, una tendenza immaginativa (con buona pace dell’intentio auctoris e, soprattutto, dell’intentio operis). Quando, in una delle ultimissime scene della serie, Jill, divenuta nel frattempo assistente volontaria dei malati di Aids, fa visita a un paziente (“Posso sedermi?”), gli chiede come sta e gli prende la mano, quel toccare così impudico, proibito, oggi innaturale assume un significato – una potenza e un rilievo – che non avrebbe mai avuto di fronte agli occhi di spettatori che non siano stati costretti, da più di un anno, a misurare la distanza tra il proprio corpo e quello degli altri, e che non abbiano dovuto smettere di toccare ciò che è loro sconosciuto – per i quali il toccare è diventato un gesto malato.
In questo caso, così come in moltissimi altri momenti dedicati al racconto della malattia, della sua propagazione e dei suoi effetti sulla vita di molti personaggi della serie (ma un rilievo diverso finisce per assumere, fatalmente, anche tutto ciò che non riguarda direttamente la malattia, che lo anticipa, lo aggira, lo scongiura ecc.), It’s a Sin smette di essere una serie Tv sulla diffusione dell’Aids nella Londra degli anni Ottanta per avere a che fare con qualcos’altro, qualcosa che non la riguarda e che tuttavia orienta ostinatamente il modo di guardarla. Lettura paranoide, riflesso incondizionato, accecamento, distorsione… Rieducazione dei sensi e, in particolare, dello sguardo: un “vedere doppio” e una deriva analogica che più di ogni altro dato, numero, curva, tendenza, statistica o colore raccontano della reale invasività e persistenza del contagio in corso, e della sua claustrofobica manipolazione della nostra libertà di movimento (del pensiero). Che riguarda tutti, nessuno escluso. E che finisce per cambiare, letteralmente, l’ordine e il senso della realtà. Se fosse soltanto una ripetizione della stessa storia, sarebbe tutto più semplice, e molto meno perturbante.