C’è una differenza essenziale fra un punto di vista morale e un’agenda ideologica. Applicato ad un’opera d’arte, il primo la informa in modo organico e ne permea ogni sua parte senza modificare la sua coerenza narrativa e l’autonomia drammaturgica; la seconda comprime e ingabbia la narrazione finendo per scardinarne la struttura e persino snaturane il– pur nobile - intento.
Due film in questo momento illustrano efficacemente questa differenza, ed entrambi riflettono sulla nostra epoca e sui temi più caldi del momento. I film in questione sono Una donna promettente, scritto e diretto da Emerald Fennell, e Judas and the Black Messiah, diretto da Shaka King e da lui coscritto insieme a Will Benson, da una storia che vede fra gli autori anche Kenny Lucas, la metà del duo di comici gemelli Kenny & Keith.
Entrambi i film riguardano due tematiche di primo piano, ovvero women and black empowerment – il che li rende in qualche modo comparabili. Ed è importante che siano storie raccontate l’una da una donna, l’altra da un afroamericano: Emerald Fennell, attrice, sceneggiatrice e al suo debutto come regista, è un’attivista del movimento di affermazione femminile; Shaka King, sceneggiatore, produttore e regista, è un’attivista della condanna al razzismo praticato negli Stati Uniti nei confronti della popolazione di origine africana (il suo corto LaZercism ipotizzava una malattia degli americani bianchi, il “racist glucoma”, che impediva loro di accorgersi dell’esistenza dei loro compatrioti neri).
Ma l’approccio ai loro ultimi lavori è speculare e contrario: perché laddove Fennell pilota il suo film in base al suo proposito di rivalsa nei confronti del maschio sciovinista (in particolare americano), seppur in una forma irresistibilmente movimentata e originale, King non rinuncia alla complessità umana dei ruoli in gioco, estendendola anche al suo eroe sacrificale, l’attivista black Fred Hampton, che era ad altissimo rischio agiografico.
Il titolo italiano tradisce già la prima riflessione relativa a Una donna promettente: perché nel titolo originale, Promising Young Woman, l’aggettivo fondamentale era young. Cassandra, la protagonista, è forse un po’ più giovane della sua interprete, la 35enne Carey Mulligan, ma si comporta come una ragazzina, avendo congelato il suo sviluppo emotivo all’epoca in cui un evento traumatico ha fermato la sua crescita. Il problema è che, con l’assist di questa premessa drammatica, Fennell infantilizza Cassandra ben oltre l’età in cui quel trauma ha incrociato la sua vita, e rende il suo progetto di rivalsa nei confronti degli uomini più simile al capriccio di una bambina petulante che al legittimo desiderio di giustizia di una donna adulta. Cassandra si traveste come ad Halloween, mangia leccalecca e si pettina con i codini, veste colori pastello e vive ancora con i genitori, nonostante abbia un lavoro presso un bar che è anch’esso arredato in stile Barbie.
Se le scene iniziali del film, in cui Cassandra si traveste da preda ideale e sbertuccia un “bravo ragazzo” pronto ad approfittarsi del suo stato etilico alterato, sono puro genio drammaturgico e cinematografico, perché mettono il pubblico maschile (e femminile) davanti alle giustificazioni di tanti per concedersi un rapporto sessuale non consenziente, la progressione della storia, che punta unicamente alla demonizzazione degli uomini presi nell’insieme, risente molto della scelta di fare di Cassandra un’eterna bambina.
I rape and revenge movie con una protagonista femminile, da I Spit On Your Grave di Steven R. Monroe e R.D. Braunstein a Ms .45 di Abel Ferrara al recentissimo Revenge di Coralie Fargeat, pur veicolando la stessa rabbia e lo stesso desiderio di vendetta di Una donna promettente, lo fanno attraverso personaggi che non hanno nulla di infantile nonostante la loro (ben più) giovane età. Anzi, è proprio il trauma della violenza a farle crescere in fretta, dando loro la lucida consapevolezza dell’ingiustizia di cui sono state vittime.
Ma è nel personaggio di Ryan che la costruzione drammaturgica di Una donna promettente compie un passo falso essenziale e tradisce il sottotesto di un’agenda programmatica così manichea da escludere la caratteristica essenziale di ogni ruolo ben concepito: la complessità umana. Per evitare spoiler macroscopici, diremo solo che Ryan ci viene presentato in un modo, e da un certo punto in poi contraddice tutto quanto abbiamo appreso su di lui.
No, qui non è in gioco lo stratagemma narrativo che fa leva sull’archetipo del Mutaforme, quello su cui si basano i thriller e i noir, e che caratterizza tutte le femme fatale e gli ingannatori della storia del cinema. Perché il Mutaforme non è schizofrenico: semplicemente aggiunge livelli di lettura imprevisti al suo tratteggio drammaturgico, senza stravolgerne completamente l’essenza. E se spesso è vero, come cantava Mia Martini, che gli uomini “fanno finta di cambiare e poi ti lasciano da sola”, è anche vero, se vogliamo procedere per generalizzazioni, che raramente sanno modulare così bene l’empatia e il rispetto del genere femminile se non ne condividono profondamente i principi fondamentali.
Cassandra non è un trofeo da conquistare o un fiore all’occhiello per un uomo attraente e di successo come Ryan, che la avvicina ricordando perfettamente il suo passato nella sua stessa università. Il suo avvicinamento alla donna comporta una serie di test da superare che richiedono una natura genuinamente egalitaria. Di fatto, la sceneggiatura tradisce il suo personaggio (e gli spettatori) proprio partendo da queste premesse, e costringendoci ad una enorme sospensione di incredulità nel suo sviluppo successivo.
Una sceneggiatura che sacrifica la coerenza di dei suoi personaggi principali denota una determinazione autolesionista che corrisponde a quella di Cassandra nell’invocare una vendetta annullandosi per prima. Questa determinazione depotenzia proprio la “morale” che si voleva dare alla storia e rende vulnerabile la sua argomentazione ideologica, facendo del film una crociata invece che un racconto e togliendole quella complessità che sarebbe stata indispensabile nel trattare un tema come la violenza della cultura maschilista.
Judas and the Black Messiah sta invece molto attento a non commettere questo errore fatale. Il film è scritto, diretto e interpretato da artisti black e incentrato su una figura che per la comunità afroamericana ha qualcosa di cristologico, il leader delle Pantere Nere Fred Hampton ucciso dai servizi segreti di J. Edgar Hoover a soli ventun’ anni. Judas and the Black Messiah rifiuta fin dalle prime scene la tentazione di fare di Hampton un santino cinematografico atto a compiacere la sua platea naturale, e racconta invece la sua storia attraverso il personaggio, altrettanto realmente esistito, di Bill O’ Neal, un Giuda (vedi il titolo) che è nero come l’eroe ma è molto meno adamantino nelle sue convinzioni su quali siano le strade da seguire per intraprendere la scalata alla società americana bianca.
O’ Neal non è l’unico traditore della sua gente, perché il film ce ne mostra uno ancor peggiore: un infiltrato nel movimento delle Pantere Nere che, per sviare da sé i sospetti degli attivisti che lo circondano, consegna loro un innocente, afroamericano e militante come lui, condannandolo ad una morte orribile. Ci sono anche due personaggi bianchi ignobili, uno dei quali è Hoover, ma non sono chiamati a rappresentare l’intera popolazione caucasica. E questo nonostante al centro della storia ci siano le Pantere nere, che vedevano la white America come il nemico istituzionale da combattere, spesso “con ogni mezzo necessario”.
Il punto di vista etico degli autori non confonde i piani e non sacrifica la drammaturgia alla sua agenda ideologica e politica, e dunque ai personaggi è permesso avere varie dimensioni senza diventare semplici pretesti narrativi. Così facendo il messaggio arriva forte e chiaro, ed è consegnato al pubblico dallo stesso O ‘Neal, che in un’intervista finale (reale) minimizza quel tormento interiore che fino a quel momento Judas and the Black Messiah ci ha così bene illustrato. Pagandone tutte le conseguenze, ad intervista finita.