Forse qualcuno ricorda il film del 2006 di Stephen Frears, nel quale una testarda signora e un iracondo direttore artistico (Judi Dench e Bob Hoskins), immediatamente prima e durante la Seconda guerra mondiale, rilanciano il Windmill Theatre di Londra che diventa, nonostante i bombardamenti notturni sulla città, uno dei luoghi simbolo della coesione e dello spirito nazionale. Persone realmente esistite e fatti realmente accaduti.
Infatti, all'inizio di novembre del 1939, riaprirono tutte le sale cinematografici e i teatri inglesi che due mesi prima, il 3 settembre, quando la Gran Bretagna aveva dichiarato guerra alla Germania, erano stati chiusi per prevenire stragi di massa. E rimasero aperti per tutta la durata della guerra, anche durante i terribili blitz tedeschi che di notte bombardavano le città, senza certo risparmiare questi luoghi di aggregazione. Le sale e i teatri potevano lavorare fino alle 11 di sera. E gli studi di produzione riaprirono e il Ministero dell'Informazione contribuì economicamente e soprattutto promosse progetti, fornì tecnici e attrezzature, liberò temporaneamente gli artisti dagli obblighi militari affinché potessero partecipare alle riprese e agli spettacoli.
In Italia e in Francia accadde qualcosa di analogo: cinema e teatri non chiusero e la cultura andò avanti, trasformandosi spesso in un elemento fondamentale di solidarietà e comprensione, di resistenza al dolore, alla fatica, alla miseria, all'orrore. Per il cinema britannico, quello tra il 1939 e il 1945 fu addirittura un "periodo aureo"; mentre in Italia fu proprio negli stessi anni che cominciarono a lavorare e si formarono quelli che sarebbero immediatamente diventati i maestri della rinascita neorealista.
D'accordo le bombe sono diverse da un'epidemia che corre silenziosa da persona a persona, e allora non c'erano televisione e web ad assolvere la funzione di svago e/o esperienza artistica e culturale. C'era la radio, potentissima nel "dialogare" con il pubblico"; e comunque la valenza culturale della nostrana offerta delle reti in chiaro (tranne alcune, rare eccezioni) è alquanto dubbia. In ogni modo, non è questo il cuore del problema.
Il cuore del problema è che, dopo essere stati chiusi per mesi e aver speso un sacco di soldi per attrezzarsi secondo le norme di sicurezza anti-Covid, i gestori di teatri e cinema vedono tutti i loro sforzi vanificati (e insieme a loro vengono frustrate tutte quelle entità, cineclub, cineforum, associazioni culturali, cineteche, festival, gruppi che, talvolta addirittura in maniera volontaristica, in questi mesi hanno ricominciato a lavorare in sala). Che, dopo aver coraggiosamente deciso di uscire in sala, nonostante i numeri bassi imposti dal distanziamento e dalla paura (e dalla decisione delle major americane di tenere fermi i film di maggiore richiamo in attesa della riapertura delle sale di New York e Los Angeles), i distributori si ritrovano con i loro prodotti nel cassetto, in attesa di un futuro sempre più incerto o di un'uscita in streaming. Che, dopo aver riadattato sceneggiature e riprese alle regole antipandemiche ed essere tornati sul set, produttori, registi, attori, tecnici, maestranze, sceneggiatori, rischiano che il loro lavoro non veda mai la luce. Per non parlare delle compagnie teatrali, più o meno tutte già (o tra poco) alla canna del gas.
Pensate davvero che prenotare il posto e pagare il biglietto on line, entrare al cinema e sedersi distanziati di due posti e una fila e per due ore, sempre indossando la mascherina, guardare avanti, verso lo schermo e il palcoscenico, senza mangiare, né bere, né, ci si augura, parlare, sia più pericoloso che entrare in un ristorante, sedersi, togliersi la mascherina, ordinare e per due ore mangiare, chiacchierare, ridere, toccare e portarsi alla bocca oggetti e cibi che sono stati preparati e serviti da altri? Io non ho niente contro ristoranti e bar che, per quanto posso, continuo a frequentare, ma trovo ridicolo o in malafede che qualcuno consideri davvero teatri e cinema luoghi più pericolosi di altri, oggi e qui, dopo tutti gli sforzi fatti.
Ma la gente si ammassa per entrare e per uscire! Sarebbe bello, se fosse vero. Ma in ogni modo, ovunque sono state previste entrare separate dalle uscite ed esiste la regola (da far rispettare, ovviamente) del distanziamento, come accade fuori dai supermercati, dalle farmacie, da ogni negozio responsabile (meno, direi, fino a ora, fuori da molti bar). La Mostra del cinema di Venezia, come il Cinema Ritrovato di Bologna o la Mostra di Pesaro o il Bari Film Festival e da ultimo la Festa del cinema di Roma hanno dimostrato che eventi in presenza molto seguiti possono essere perfettamente controllabili. E, credetemi, nei cinema e a teatri "normali" non va altrettanta gente. Purtroppo.
Ma poi c'è affollamento sui mezzi pubblici! A parte il fatto che non si sarebbe mai dovuto eliminare il distanziamento sui mezzi (com'è invece accaduto, tranne che su parte dei treni), magari sarebbe stata utile, durante l'estate, una ritoccatina alla frequenza e al numero dei convogli, appoggiandosi anche a privati; o, che so, stabilire delle convenzioni con le compagnie dei taxi per rientri a casa post-cinema o teatro a prezzi calmierati e convenzionati (come si fa per le corse verso gli aeroporti). Tanto anche i tassisti, verso le 10 di sera, sono disoccupati.
Ma questo non è il mio mestiere: sono i tecnici, gli esperti e i politici che dovrebbero elaborare misure di questo genere. Magari anche cercando di non accanirsi contro i settori più in difficoltà (spesso perché già in mutazione), maggiormente provati dalla chiusura precedente e, quel che è peggio, considerati "non essenziali".
E qui ecco che spunta "l'elefante nel soggiorno" (come chiamavano gli inglesi la questione irlandese) o, per dirla con un politico nostrano, "la mucca in corridoio": la cultura è sempre quella che paga le spese delle crisi e dei disastri, finché ci si ritrova in un paesaggio desertificato, dove la scuola non basta a spiegare che la socialità non è solo quella dello spritz al bar e che un libro, un film, uno spettacolo teatrale, una bella serie tv ti aiutano a capire di più e a stare meglio e non sono fruibili solo zombescamente nella tua cameretta o su uno schermo di 10 centimetri per 20.
In più, la cultura significa anche lavoro e sopravvivenza per un mucchio di categorie: oltre a quelle di artisti, gestori, distributori ecc. elencate sopra (alle quali magari provvederanno, seppur non faraonicamente, le prossime misure di sostegno economico), a pioggia tutti i professionisti (per esempio, i giornalisti) e i free lance, i cococo o comediavolovogliamochiamarli, i precari, i saltuari, che pagano le tasse (perché fanno fatture o certificazioni di pagamento) ma sfuggono alle classificazioni ufficiali che poi beneficiano del bonus.
Modestissimo esempio personale: giornalista free lance, avrei dovuto scrivere per un giornale la recensione di due film di prossima uscita. Non le scriverò e non incasserò la somma, seppur minuscola, pattuita. E tutti i giovani che avrebbero dovuto lavorare come maschere o autisti o controllori di sala nei prossimi festival in presenza? E gli uffici stampa ai quali salta la promozione di tutti i film e i festival? E i traduttori, i fotografi, gli interpreti?
Ma siamo tutte persone civili e non abili nel maneggiare cassonetti e moto come strumenti di guerra come hanno dimostrato invece di saper fare gli infiltrati nelle manifestazioni di venerdì scorso a Napoli. Siamo persone civili e, come quasi tutti quelli che lavorano nella cultura, non abbiamo forza economica e potenza di pressione pari a quella di altre categorie economiche. Ci piace così, ma credo abbiamo il sacrosanto diritto di sentirci, questa volta, molto offesi.
Infine, affinché la mia posizione, diciamo ideologica, non venga fraintesa, vorrei chiarire che finora ho apprezzato come si è mosso il governo in fase di emergenza e ho condiviso gran parte delle misure adottate.
Il fatto è che, per essere Churchill, bisogna dimostrarsi bravi nella maratona e non solo nell'iniziale corsa al cronometro.