Chi sono i barbari? Goti e Vandali, Unni e Avari, Tartari, Cumani e... Stati Uniti. I barbari sono là fuori, da qualche parte, tutti intorno a noi, anche se non li vediamo (lo dicono i social). I barbari forse siamo noi. Immaginiamo il ghigno di Eugène Green, che costringe sei personaggi a consegnare smartphone, tablet e altre diavolerie, prima di entrare nella casa del Mago, in cerca di rifugio.
Comincia così, En attendans les barbares, dentro il buio di un portone a cui bussano i sei profughi del tempo moderno, le maschere del materialismo trionfante. Comincia dopo un prologo che fotografa l'occasione da cui è nato il film, un laboratorio condotto dal regista francese a Tolosa (Chantiers nomades). Un prologo che, tra le altre cose, ci ricorda che nessuno sa inquadrare monumenti, edifici, chiese, come il regista francese.
Stavolta, però, Green ci lascia alla mercé del buio in cui viviamo, delle nostre paure e presunzioni. Teatro allegorico, queste spirituale, in cui la banalità del male borghese viene messa a nudo dal gioco iniziatico dei due magi. Lo sfondo nero esalta la frontalità spudorata, solenne, del cinema di Green, quel suo mettersi davanti all'interprete, il personaggio, la parola del personaggio, in modo che arrivi insieme all'energia dello sguardo, piena, profonda, spiazzante. La “Presenza”, che ci riporta al suo Teatro della Sapienza.
I volti scolpiti dalla luce, l'umorismo che colpisce all'improvviso («ci deve essere una spiegazione razionale, siamo francesi!»), i borghesi sterili, il poeta col suo fantasma, la pittrice con la sua arroganza, il politico che ha paura di fare politica. Siamo dentro un “mistero” medievale, in costumi occidentali moderni, in cui la parola arriva rotonda, nel consueto (per Green) perfetto francese, che contribuisce a creare quella sua distanza magica, spaesante.
L'iniziazione, una volta trovata un po' di luce, passa per i quadri di Tournier, la dinamica misteriosa della speranza proprio là dove c'è la disperazione più assoluta. Speranza nel fatto che la vita abbia un senso. La deposizione del Cristo. La morte come cammino che unisce la terra al cielo. E infine, in uno spazio azzurro-viola livido, surreale, l'improvvisa apparizione dell'amore cortese, le gesta del cavaliere Jaufré, da un romanzo di un anonimo occitano del 1200. E qui la parola si fa canto, gesto, e lo spaesamento è totale, così come l'incanto, tra un'evocazione del mito di Artù e un jump cut della bella che invoca Dio, con la mdp che dall'alto accoglie la supplica e resuscita l'eroe, fino alla lotta finale contro il Male. Ogni azione, ogni sofferenza, genera una rinascita.
La speranza non è domani, ma adesso, là fuori, dove il buio ha lasciato il posto all'alba e non si vedono barbari all'orizzonte. “Ogni vita ha un senso. Ciascuno di noi è l'Uomo”. Con un sacro ironico serissimo sorriso.