In fondo non è una situazione troppo originale quella da cui trae spunto The Disaster Artist. Di film talmente orrendi da risultare bellissimi e quindi sublimi e quindi automaticamente dei cult, la storia del cinema è piena. E così pure di artisti che artisti non sono e che il mestiere dell’attore o del regista non l’hanno mai saputo fare ma l’hanno inseguito tanto caparbiamente da essere riusciti a realizzare (almeno) un film. L’ovvio riferimento è a Ed Wood, figura fra il romantico e il grottesco celebrata in questa chiave dal biopic che Tim Burton gli ha dedicato. Ma si pensi anche allo straordinario Close Up di Kiarostami, opera che tematizza con estrema sensibilità la riflessione sul rapporto tra finzione, immaginario e realtà.
Di certo Franco non arriva alle vette raggiunte da Kiarostami e in fondo il suo film si pone altri obbiettivi, tuttavia The Disaster Artist, al di là del gioco meta-cinematografico che lo contraddistingue, dice cose che – per quanto non troppo originali – suggeriscono ben più di una riflessione.
La storia è nota. San Francisco, fine anni Novanta, Tommy Wiseau, uomo d’aspetto bizzarro e personalità singolare e dal passato misterioso, conosce l’aspirante attore Greg Sestero e decide di trasferirsi con quest’ultimo a Los Angeles per tentare la fortuna nel mondo del cinema. Le cose però vanno male e subiti una serie di rifiuti e fallimenti Tommy pensa di scrivere, produrre, dirigere e interpretare un film tutto suo, ricorrendo a ingenti somme di denaro del quale nessuno conosce la provenienza. The Room, risultato di questi sforzi, esce nel 2003 e viene sin da subito giudicato come “il film peggiore di tutti i tempi”. Ben presto però diventa un cult fra i cinefili e si guadagna una certa fama come midnight movie. Il “successo” da Los Angeles si espande nel resto degli Stati Uniti e infine in tutto il mondo. Sestero, che è co-protagonista del film, nel 2013 ha pubblicato un memoir dal titolo The Disaster Artist: My Life Inside The Room, The Greatest Bad Movie Ever Made da cui il film di Franco è tratto.
Franco è irresistibilmente attratto da Wiseau: dai suoi modi di fare eccentrici, dal suo carattere imprevedibile e dal suo narcisismo debordante. Forse capisce di somigliargli e per questo, oltre ad aver voluto a tutti i costi fare il film ha anche scelto di interpretare Tommy stesso. Ed è sempre per questo – probabilmente – che ha scelto una messa in scena il più mimetica possibile. A partire dal make-up – che lo rende praticamente identico all’originale – e al modo di parlare e di muoversi, per arrivare alla ricostruzione minuziosa e spesso maniacale di alcune scene di The Room. Un tentativo di calco – del quale lo split screen finale è una sorta di sfoggio – forse eccessivo, senz’altro superfluo, ma che dice molto sul tipo di operazione che, inconsapevolmente o meno, Franco mette in atto.
Ovvero una storia intrinsecamente hollywoodiana, che ha a che fare con il cinema “vero” o nobile – nella sua forma materialistica – più di quanto si pensi. Il film di Tommy è il risultato di tutta una serie di elementi che costituiscono la materia di cui l’industria cinematografica è fatta.
L’illusone, il sogno, la narrazione del mito che attraverso il feticcio di James Dean dà origine a tutto; il denaro (l’enorme quantità di soldi) che permette l’edificazione del sogno e che riesce a manipolare ogni forma di razionalità e qualsiasi tentativo di ricondurre alla ragione. E poi la creazione dell’oggetto cultuale che proprio da Hollywood – dove la proiezione dei midnight movies è nata e resiste nonostante la crisi della sala – prende piede e diventa un fenomeno culturale. Il film di Tommy non è altro che una qualsiasi storia hollywoodiana giocata secondo le proprie regole, ovvero fuori da tutte le regole. L’incapacità di mettere in scena i sentimenti senza brutalizzarli, l’assoluta incompetenza in materia di scrittura, la non conoscenza dei generi e il dilettantismo con il quale si approccia al mestiere fanno di Tommy un errore, un rapporto di minoranza della macchina industriale del cinema, che è però totalmente funzionale ad essa.
Ed è per questo che The Room viene replicato da The Disaster Artist. Personaggio che è contemporaneamente interno (in qualità di attore) ed esterno (come regista) a Hollywood, Franco comprende perfettamente i meccanismi del sistema cinematografico statunitense. E imitare significa in questo senso comprendere di essere parte intrinseca del lavoro di Tommy.
Come nelle migliori commedie, infine (perché non va dimenticato che The Disaster Artist è anzitutto una commedia) ciò che viene fatto oggetto di parodia è un dramma (quello umano di Tommy), mentre il messaggio che filtra – non meno amaro, nel gioco un po’ sadico di Franco – è che anche l’amatorialità (guarda a caso The Room esce nel pieno del passaggio dalla pellicola al digitale e il film è girato in entrambi i formati!) può persino diventare uno stile. Forse un genere. E al di fuori di tutti i retropensieri filosofici o le speculazioni romantiche che finiranno per circondare il film, la figura grottesca di Tommy Wiseau – probabilmente – sta lì per non dirci altro che questo.