Il 1938 è l’anno che segna la fine delle Grandi purghe, l’epurazione di massa, nel Pcus e nella società civile sovietica, voluta da Stalin e messa in pratica dall’Nkvd e dal suo capo Nikolaj Ivanovič Ežov. In Russia la chiamano ancora oggi Ežovščina, cioè l’era di Ežov, radicata nell’immaginario come il momento più spaventoso e cupo dell'era sovietica, prima della Grande guerra patriottica e del sacrificio di un intero popolo contro l’invasore nazista.
In Captain Volkonogov Escaped, che ricostruisce le stagione delle purghe senza mai citare l’Urss, l’anno 1938 è scritto a caratteri cubitali sul rivestimento rosso del gigantesco aerostato che a un certo punto attraversa il cielo di Leninigrado: di Stalin nel film non c’è nemmeno l’ombra, ma il “sole ingannatore” che oscura la luce è lo stesso che nel finale dell’omonimo film di Nikita Michalkov del 1994 si alzava oltre l’orizzonte condannando una nazione al suo momento più buio e santificando il corpo del regista-attore erettosi a raffigurazione stessa del martire.
Quasi trent’anni dopo quel film, Natasha Merkulova e Aleksey Chupov sentono ancora nel loro paese il medesimo bisogno di purificazione e usano perciò l’esperienza individuale di un uomo di potere pentito come prisma di una condizione comune.
Il film è una via crucis, il viaggio espiatorio di un agente responsabile di decine di uccisioni (di civili, di agenti, di innocenti fatti passare per traditori perché ritenuti deboli e possibili delatori) che fugge dal quartier generale della polizia (anch'essa senza nome) e va in cerca dei parenti delle sue vittime per ottenere perdono. A consigliarlo è un amico e collega giustiziato in quanto nemico del popolo (come i 14000 agenti dell'Nkvd che Ežov ammise di aver fatto uccidere, poco prima di essere a sua volta giustiziato), tornato dall’inferno per suggerirgli di guadagnarsi il paradiso emendandosi dalle proprie colpe.
Evidentemente, quello del paradiso come ultima possibilità di salvezza deve essere un tema sentito nella Russia contemporanea, dal momento che già Paradise di Konchalovsky metteva in scena la confessione nell’aldilà di tre persone coinvolte nel dramma dell’olocausto, tutte esposte al peso della colpa e mosse da un anelito alla salvezza. È quindi probabile che Captain Volkonogov Escaped sia un film sintomatico dell’attuale anima russa, delle sue esigenze e dei suoi interessi; resta però il fatto che nel desiderio d'assoluzione del protagonista, al di là della costruzione narrativa elementare (prima la fuga, poi gli incontri con i parenti delle vittime che innescano flashback su torture e uccisioni di massa e infine l’incontro tra inseguito e inseguitori), c'è una semplifcazione assolutoria al limite della deresponsabilizzazione: al Capitano Volkonogov (intepretato dal bravo Jurij Borisov, già visto a Cannes in Compartment No. 6 e Petrov's Flu) basta il gesto della mano di una donna morente, culmine spirituale e figurativo del suo viaggio salvifico verso l’eternità.
Che poi l’Urss non venga mai citata, se non in qualche fugace passaggio e nell’elenco delle capitali delle sue repubbliche, è un modo anche in questo caso piuttosto banale (e subdolo, verrebbe da dire) di rendere indistinguibili e vane le colpe, con la ricostruzione storica fine anni ’30 che si apre a toni distopici e retrofuturisti nel design delle tutte degli agenti speciali, moderne nel taglio e simboliche nei colori, con il contrasto tra il rosso fuoco dei pantaloni da ideale Armata rossa e il nero corvino dei pastrani di memoria nazifascista.
Onestamente, non sembra che il modo migliore per fare i conti con il passato sia gettare letteralmente una mano di colore sulla Storia.