Un’esperienza che si distingue per la sua innovativa sperimentazione capace di integrare immersività, fashion design, danza e storia dell’arte. Si intitola Dazzle, un termine inglese che significa al tempo stesso “affascinare, attirare”, ma anche “abbagliare, accecare per la troppa luce”. Proprio l’ambivalenza costitutiva tra fascinazione e depistaggio è uno dei fils rouges di questa complessa installazione che rivisita in Realtà Mista un ballo in maschera nel Chelsea Arts club della Londra del 1919, in cui i partecipanti indossavano costumi dalle curiose tinte optical e invita l’experiencer ad unirsi alla danza sulle note di un intrigante sound di musica elettronica e suoni sintetici.
Indossando il visore si accede ad ambienti fortemente grafici, le cui morfologie si delineano e materializzano nel contrasto tra i bianchi e i neri. In mezzo a questi paesaggi urbani, l’experiencer si ritrova incarnato in avatar polimorfi simili ad ectoplasmi, apparendo o scomparendo sullo sfondo bianconero a seconda dell’angolazione di sguardo o della posizione occupata nello spazio. Nel corso dell’esperienza le ambientazioni cambiano e prendono forma fino ad assumere le sembianze di una monumentale, quanto stilizzata, metropoli moderna brillante di insegne al neon, molto in linea con l’immaginario avanguardista di primo Novecento, da Man Ray ad Aleksandr Rodchenko.
Ma quella immersiva è solo una delle esperienze possibili: Dazzle può infatti essere fruito anche da uno spettatore che osserva dall’esterno le performance quasi coreutiche delle experiencer. Per questo l’esperienza comincia con una sorta di travestimento di cui potranno godere solo gli spettatori senza casco: il primo passo è indossare sorprendenti kimono, genderless e progettati in ottica zero-waste. I classici tracker per mani e piedi sono sostituiti da preziosi gioielli, desiderabili accessori d’alta moda. Sul luogo, due danzatrici sfoggiano tute full-body che registrano i loro movimenti e li traspongono nello spazio virtuale. Ma il parallelismo tra le due esperienze – in e off – è complesso, perché la performance delle danzatrici non viene semplicemente riprodotta nello spazio virtuale, ma trasformata in una giostra di figure moltiplicate all’infinito e non sempre localizzabili con precisione, camuffate nello spazio monocromatico. Le danzatrici attraversano un grande specchio virtuale – metafora ormai classica dell’immersività e del desiderio di entrare “dentro” l’immagine – per trasformarsi in corpi geometrici che si materializzano nel contatto fisico e con cui è possibile danzare tenendosi per mano tanto dentro che fuori dal visore.
Il gioco sul visibile accecante proposto da Dazzle trova una propria insospettabile genealogia nelle tecniche di camouflage praticate durante la Prima guerra mondiale. Il modo in cui le navi inglesi depistavano i radar delle u-boot per rendersi invisibili al nemico consisteva proprio nel loro “travestirsi” in modo così vistoso da divenire invisibile, quantomeno per l’occhio macchinico dei radar nemici. Secondo questo stesso principio, la nostra è una mascherata “per abbagliamento” capace di moltiplicare e depistare i piani dell’esperienza e dell’immagine. Con la sua duplice fruibilità, Dazzle socializza in modo assai originale l’esperienza individuale del visore.
Rivisitando un motivo che si radica nella scienza militare, diventa un fenomeno di costume nonché un’estetica avanguardistica, l’ultima opera di Ruth/Gibson allude anche al problema contemporaneo dell’essere intercettati e alle strategie di cui abbiamo bisogno per sottrarci ad esse.