Tra il filone di esperienze in realtà virtuale che si propongono di calare lo spettatore, per quanto possibile, in una condizione di disabilità, un posto di riguardo è occupato da Spots of Light, presentata all’ultima edizione di Venice Immersive. Come la più famosa Notes on Blindess: Into Darkness (recensita qui da Anna Caterina Dalmasso), questa esperienza si confronta con il tema della cecità, cercando di restituire le condizioni di privazione e riacquisizione della vista vissute da Dan Layani, un soldato israeliano che, giovanissimo, perde l’uso degli occhi durante un conflitto armato.
Narrata dal voice over del protagonista, l’esperienza in 6 gradi di libertà (6 DOF) ricalca la sua vicenda personale passando da uno stile figurativo realistico a un’estetica pointilliste, metafora che va a ricalcare la percezione di coloro che sono diventati ciechi, cioè la visione, nell’oscurità, di puntini luminosi. Al contempo mezzo di rilevazione fotogrammetrica e cifra espressiva, i punti luminosi che ricostruiscono l’ambientazione virtuale diventano una guida per lo spettatore, calato in prima persona nella prospettiva del protagonista. Qui risiede il potenziale di immedesimazione offerto dall’esperienza: in una focalizzazione interna al punto di vista di Layani, lo user esperisce una narrazione orale che assume anche una forma visiva: infatti, come viene chiarito da alcune scene iniziali, il voice over non è altro che un’intervista del protagonista con il regista, che nel corso del racconto dà forma ai fenomeni luminosi che di volta in volta si presentano davanti ai nostri occhi.
La narrazione prosegue mostrando come, dopo venticinque anni, Layani riacquisisca la vista grazie a un intervento chirurgico: è così che i puntini che circondano lo spettatore iniziano ad assumere delle conformazioni figurative sempre più chiare, rendendo visibili la sua casa e le immagini dell’archivio famigliare. Parallelamente, il protagonista può vedere per la prima volta la moglie e i figli, esperienza che a noi viene veicolata sotto forma di tracce fotografiche e immagini televisive. La funzione documentaria dell’esperienza corre dunque su un doppio binario: quello delle tracce fisiche, come le fotografie, e quello della percezione non puramente ottica, che cerca di avvicinarsi a quella di una persona cieca. Proprio su quest’ultimo aspetto si concentra la possibilità di interazione offerta allo spettatore: infatti, nel corso dell’esperienza, lo user è invitato ad attivare e a dirigere questi spots of light con il movimento delle proprie mani, a voler accentuare – questa la cosa più interessante di un’opera che pecca un po’ di retorica e scarsa originalità – la dimensione multisensoriale della visione.
Spots of Light di Adam Weingrod (15’, Israele/Canada)