Buenos Aires, Ippodromo di Palermo: Remo Manfredini (Nahuel Pérez Biscayart) è un fantino leggendario, ma il suo comportamento autodistruttivo, un combinato di droga, alcool e fumo, sta cominciando ad azzerare i frutti del suo talento e a minacciare la relazione con la compagna, Abril (Úrsula Corberó), che è una fantina talentuosa e vincente a sua volta, ed è incinta. Il giorno della corsa più importante della sua carriera, quella a dorso di un costosissimo purosangue comperato in Giappone, che, se vinta, dovrebbe liberarlo dai debiti con il suo patron, il boss mafioso Sirena (Daniel Giménez Cacho), Remo è vittima di una distrazione che lo trascina in un incidente gravissimo; è dato per irrecuperabile, tuttavia, nella notte, scompare dall'ospedale e si trova a vagare per le strade di Buenos Aires. Libero dalla sua identità pesante e riconoscibile, inizia a familiarizzare con la persona che forse è veramente destinato a essere. Ma Sirena lo vuole trovare, vivo o morto.
El Jockey non è un film con Nahuel Pérez Biscayart, questo film è Nahuel, corpo d’attore che può essere grazioso e mostruoso, adolescente e pregeriatrico, virile e muliebre, naturalistico e surreale, correlativo perfetto dell’impermanenza, della fluidità dell’essere.
El Jockey è un film, per stessa ammissione del regista Luis Ortega, pensato con in mente Nahuel, amico d’infanzia e complice nella creazione di un’opera in gran parte affrontata per gradi, a partire da tre spunti: il ricordo del protagonista de Il vagabondo delle stelle di Jack London, l’incontro fortuito con un clochard russo vestito da signora per le strade di Buenos Aires e l’esperienza diretta della paternità, avendo come stella fissa l’idea della mutazione, della trasformazione, della rinascita come rimedio lenitivo allo scontro tra l’interiorità del personaggio e le pressioni del mondo esterno.
Il registro adottato da Ortega è per forza di cose antinaturalista, quando non apertamente surreale e autenticamente comico, come accade nelle scene coreografate negli spogliatoi dei fantini e soprattutto in quello delle ragazze, e nella rappresentazione degli incidenti di Manfredini, ed è per forza di cose accompagnato da uno stile recitativo astratto e imploso, reticente, che irradia da Nahuel e investe tutto il cast, da Úrsula Corberó e Mariana Di Girólamo, fantine, amiche, amanti, a Daniel Giménez Cacho nei panni piuttosto malati del boss Sirena, che sembra dipendere dalla presenza di un infante rubicondo, non è chiaro di chi sia figlio, cullato perlopiù da uno dei suoi sgherri, e lascia intendere che un giorno quella posizione potrebbe spettare al bambino di Abril e Remo.
L’antinaturalismo si sposa anche con una leggera discronia, con la sensazione di essere dentro a un riflesso sospeso degli anni ’70 pur non essendoci, e in questo aiuta la colonna sonora, insieme alla fotografia “inattuale” di Tino Salminen, direttore della fotografia di Kaurismäki. Come accadeva nel precedente lungometraggio di Ortega, L’angelo del crimine, anche qui è utilizzato, tra gli altri, un tema musicale prelevato proprio dal repertorio anni ’70, un brano di quelli che diventano subito un tormentone, Un beso y una flor di Nino Bravo, apprezzatissimo cantante valenciano morto in un tragico incidente a 28 anni, e pertanto divenuto leggenda per il pubblico e miniera ancora oggi inesausta per i discografici. Le parole «Al partir un beso y una flor/ Un "te quiero", una caricia y un adiós/ Es ligero equipaje/ Para un tan largo viaje/ Las penas pesan en el corazón» («Alla partenza, un bacio e un fiore/ Un “ti amo”, una carezza e un addio/ è un bagaglio leggero/ Per un viaggio così lungo/ I dispiaceri sono pesanti sul cuore») che sembrano profetiche per chi abbia in mente il destino del cantante, riverberano perfettamente sull’afflato di morte e rinascita espresso da Remo, che affronta la propria rigenerazione con un’attenzione ossessiva per il peso, per il bagaglio leggero, per l’incorporeità in cui si ritrova, così come la sua giornata di fantino cominciava sistematicamente alla prova della bilancia.
Difficile comunque credere che questa pàtina anni ’70 non abbia a che vedere anche con una possibile lettura politica del film, del personaggio di Manfredini e della sua palingenesi come corpo simbolico di una collettività governata da patriarchi e mafiosi, che accetta di morire (che è abituata a morire, che non vuol dire soccombere) per cercare di rinascere con una diversa maturità, di riapprendere a correre la propria corsa, anche quando è quella impari contro un levriero o contro un’auto lanciata a tavoletta.