Secondo Louis Ferdinand Céline, «è fetente il passato, si scioglie nella fantasticheria. Strada facendo intona certe ariette che nessuno glielo ha chiesto. Se ne torna bighellonando tutto imbellettato di pianti e pentimenti». Marco, film spagnolo presentato nella sezione Orizzonti, racconta di un personaggio che su queste “ariette”, per dirla con Céline, costruisce una carriera. Si inventa di sana pianta un passato travagliato, di deportato in un campo di concentramento nazista, e lo interpreta con una convinzione tale da permettergli di arrivare in cima all’associazione spagnola delle vittime dell’Olocausto. Le sue testimonianze vibranti, segnate da una sofferenza in realtà mai provata, fanno facilmente breccia nei cuori di studenti e insegnanti, rendendolo il portavoce ideale del monito a “non dimenticare”.
In principio non veniamo resi consapevoli della truffa, sebbene il film ci metta sulla buona strada già nella prima sequenza, quando, in visita al campo di sterminio di Flossenburg, gli viene negata la certificazione che dovrebbe attestare la sua condizione di prigioniero negli anni della guerra. Marco non è mai stato deportato, ma in compenso ha studiato a fondo la tecnica retorica dei testimoni, dei sopravvissuti, che è poi quella che conta veramente, se si vuole fare profitto nel business della memoria, degli errori/orrori del passato asserviti alla prospettiva di un futuro migliore. Quando, complice uno storico pedante e puntiglioso, la truffa viene allo scoperto, il film decide di andare a fondo nella descrizione del personaggio, facendo emergere dalle sue stesse parole il bruciante desiderio di notorietà alla base della truffa e della messa in scena.
È questo il lato più interessante e affascinante del film: l’idea che, in un’epoca in cui la memoria si è fatta spettacolo, gli uomini di spettacolo possano mangiarsi la memoria. Che a contare, nelle rievocazioni delle tragedie del passato, sia la forza della testimonianza, non la sua verità. Quando ancora la sua credibilità è intatta, vediamo Marco sgomitare, all’interno dell’Associazione, per potere essere sempre lui a “ricordare” gli orrori dell’Olocausto negli eventi pubblici, in ragione della sua maggiore abilità nel dare spessore drammatico ai ricordi. Sino a che punto – anche dopo che la sua truffa è stata svelata – possiamo dargli torto? Da quando le giornate della memoria hanno sancito l’importanza di volgere lo sguardo all’indietro, la macchina mediatica ha fatto in modo che il passato si potesse agevolmente “sciogliere nella fantasticheria”: in sintesi, conta più ricordare che ricordare bene. La testimonianza deve generare i suoi dividendi, un profitto fatto di indignazione, costernazione, cordoglio. Sotto questo profilo, la spregiudicatezza di Marco è il sintomo di un’epoca, la nostra, nella quale la memoria è diventata un tassello importante nel mercato della cultura e nel sistema dei media.