Vorrei chiederti prima di tutto perché hai sentito l'urgenza, oggi, in questo momento storico, in questa Italia, di "ideare" (come si legge nei titoli di coda: Ideato e diretto) un documentario come questo. Che cosa ti ha spinto, come uomo, come cittadino, come autore di cinema?
«Felice chi è diverso è nato, come quasi tutto quello che faccio, da un’occasione : in questo caso la possibilità di spulciare tra gli archivi dell’Istituto Luce cercando materiali di repertorio su un tema a mia scelta. Avevo in mente i cinegiornali visti da ragazzo con commenti agghiaccianti su persone omosessuali abbastanza conosciute all’epoca, come il sarto Schubert, il cantante Bindi, oltre naturalmente a Visconti e a Pasolini. L’idea era quella di mettere questi materiali di fronte all’esperienza omosessuale vissuta dalle persone sulla propria pelle, per raccontare da un punto di vista preciso il trentennio che va dal secondo dopoguerra, diciamo, alla fine degli anni Settanta, un periodo cruciale per il costume italiano, e del quale ho ricordi molto forti.
C’era in partenza la volontà di storicizzare l’argomento (ecco perché sembra un film “datato”, come ha detto qualcuno al Festival di Berlino: è a suo modo un film “d’epoca”…) per trarre senza toni professorali qualche impressione sull’oggi, stimolare uno scambio più di sentimenti che di ragionamenti. Da qui la scelta eccentrica di far parlare uomini che oggi hanno, chi più chi meno, ottant’anni, e di dare quasi per scontato che le cose non sono più le stesse. O non sembrano più le stesse.
Oggi ho l’impressione che, per quanti passi avanti si siano fatti (e per quanti film gay themed abbiamo visto, anche belli), qualcosa strada facendo si sia inceppato: abbiamo bisogno di riflettere ancora e di parlare. Vorrei sbagliarmi, ma un documentario come questo mi sembra utile, se non necessario. Sento il bisogno di tornare indietro per capire meglio dove si è perso (se davvero si è perso) il cammino, e lasciare a qualcuno più giovane un terreno meno accidentato, con meno intralci, meno trappole».
Quanto credi siano importanti oggi le "definizioni", le "etichette"? Quanto credi sia giusto discutere oggi di semantica, riguardo alle parole "gay", "omosessuale", "capovolto" ecc ecc? A mio parere, uno dei testimoni più sorprendenti e illuminanti è l'ex femminiello che tu intervisti all'aria aperta, che afferma fra le altre cose che il termine "gay" ha cementato e livellato la sacrosanta diversità.
«La parola gay come colata di cemento sulle diversità è un’immagine efficace. Ma i danni che può aver fatto sono più visibili dall’interno, credo. Dal termine gay ci si può sentire protetti, ci accoglie in una comunità (il frocio si sentiva solo al mondo…). Ma ci mette anche in riga, come i soldati delicati della canzonetta. Quelli che una volta insultavano il ricchione, l’invertito, il capovolto, oggi “tollerano” il gay. Ma l’insulto ti uccideva e ti resuscitava. La tolleranza apre un varco ai tuoi diritti ma taglia fuori (questo credo che voglia dire Ciro) la natura, speciale o meno, che ti appartiene. Essere frocio un tempo era il dramma sul quale fare leva per un riscatto, un traguardo ambizioso che qualche volta raggiungevi. Il gay normalizzato di oggi ha meno conflitti e meno rogne, ma rischia di essere uno dei tanti, “comune”, come direbbe Sandro Penna».
A tale proposito: credi che la parola "frocio" (o l'apparentemente meno violenta inglese "queer") possa ancora conservare qualche valenza politica? O davvero "gay" ha ormai uniformato ogni cosa, rendendo tutto uguale?
«Credo talmente alla valenza politica dell’essere frocio che ho scelto appunto come narratori del mio documentario persone che hanno vissuto l’età piena quando la parola gay non c’era ancora. Gay, acronimo o aggettivo che sia, è diventato spesso uno stereotipo non solo linguistico ma di comportamento. Ha allargato i confini del recinto ma non ha aperto nessuna porta. Le barriere che si sono abbattute negli ultimi decenni tra gay e etero forse hanno calmato le acque dello sberleffo e del razzismo ma non hanno risolto un nodo cruciale: il diverso da te non deve essere “accettato”, il diverso da te è parte della tua stessa libertà.
Io reagisco quando sento una frase apparentemente innocua come “quello che fa un altro sotto le lenzuola, non è affare mio”. Invece è affare tuo, eccome. Non nel senso che sotto le lenzuola altrui ci devi andare a spulciare, ma perché devi capire che non ne hai alcun diritto. Non siamo liberi per concessione del vicino di casa o del datore di lavoro, del partito o della parrocchia. Siamo liberi e basta. Solo se sbagli devi rendere conto della tua libertà. Come vedi, il discorso si allarga, non riguarda solo gli orientamenti sessuali della persona, ma tutto il resto». (...)
L'intervista completa verrà pubblicata sul n°533 di Cineforum