«Qualcuno ha da accendere?» La conversazione con Justine Triet, una delle promesse più interessanti del giovane cinema francese, comincia nella maniera più informale possibile. Lei è svagata, tra il distratto e il turbato, come le sue protagoniste. Ci domanda se vogliamo aspettare anche Virginie Efira, splendida protagonista del suo nuovo film, Victoria, presentato alla Semaine de la Critique. Virginie arriva un po’ più tardi, nel frattempo abbiamo già cominciato. Il rapporto tra loro sembra invertito per certi versi, sembrano due sorelle, il braccio e la mente...
Già ne La bataille de Solférino la vicenda ruotava intorno a una donna che lottava per assicurarsi una posizione professionale senza perdere il controllo della propria vita privata. E così accade anche in Victoria, come se questo tipo di personaggio fosse un’inestinguibile sorgente di comicità.
Justine Triet: Sì, è vero, ma nel caso di Victoria volevo concentrarmi di più su questo personaggio, costruire un ritratto di donna, mentre ne La bataille de Solferino la scena era condivisa alla pari con il personaggio dell’ex; quindi ho strutturato il film in modo che, nel suo progredire, si scoprano sempre più cose di lei: mente, a volte, le vengono riferite cose vere e cose false, emergono aspetti della sua personalità che vengono confermati o smentiti dagli analisti o dagli amici con cui parla, in pratica si comprende man mano quel che di lei è vero e quel che è solo immaginato, e il personaggio cambia, diventando sempre più complesso. Questo mi interessava. Quando ho cominciato a scrivere la sceneggiatura volevo raccontare la fine di un’amicizia e l’inizio di un amore: da un lato le persone da cui Victoria si allontana, l’amico che lei si trova a difendere in una causa di tentato omicidio, che la conduce in tutti gli stati fino a un’impasse professionale, e l’ex che fa un blog contro di lei accusandola di nefandezze; dall’altro un giovane uomo dall’aspetto vagamente candido, naïf, che l’aiuterà a sbrogliare un po’ di questo caos, benché si riveli, in fondo, meno trasparente di quanto sembrasse.
Questo film però, rispetto al precedente, è una commedia romantica classica...
In effetti, sì, la vera differenza è che Victoria è più classico nella forma e nella struttura, ma è anche vero che la commedia mi consente di essere più dura, più crudele, in quello che racconto. Ho l’impressione che, se avessi fatto un film più naturalista e diretto non sarei riuscita a fare dire delle cose così dure ai personaggi. Nell’ultima scena, per esempio, si parla continuamente di negoziazione, di denaro, di divario sociale, sono parole inaudite, molto dure, nei rapporti d’amicizia, d’amore, di sesso, la commedia mi consente di spostare il cursore più in alto, di essere più crudele. È questo che mi interessa della commedia, non il senso dolciastro, delicato della commedia romantica: ne preservo i meccanismi e i codici, ma li declino in un senso amorale e anti-emozionale, non in un senso normativo.
Il film parla molto di sesso, ma non si vede mai niente; il sesso è un po’ dappertutto, tutti parlano di sesso, l’amico che Victoria difende le parla della propria vita sessuale, si parla di sesso con l’analista, ma anche in tribunale, dove tutto è reso pubblico, non c’è più sfera privata, il privato esplode nel pubblico. Per contro, la libido di Victoria sembra completamente spenta, esaurita, mi piaceva l’idea di avere Virginie Efira, un’attrice così bella, in quella posizione, per poi farle riscoprire il sesso: non è una donna frigida, non è una caricatura, anzi, attraverso il blog dell’ex-marito e le conversazioni con l’analista emerge una precedente vita felicemente promiscua, e, passato questo periodo di indifferenza, riscoprirà il sesso attraverso la grazia, l’innocenza.
(Nel frattempo, proprio mentre si parlava di lei, è arrivata Virginie) A proposito di innocenza: in entrambi i film il baby-sitter è un uomo...
J.T.: Credo di avere il gusto per i giovani uomini naïf, innocenti. A parte gli scherzi, mi consente di rovesciare gli schemi della tradizione. O forse no, davvero mi piace filmare giovani uomini dall’aria innocente, quasi desessualizzati. Evidentemente, a parte tutto questo, avevo immaginato che Vincent (Lacoste), installandosi nella casa di Victoria, avrebbe assistito alla sua vita, prima di innamorarsene. E d’altronde mi piace molto, nei film - capitava anche ne La bataille - quando c’è un personaggio nuovo che arriva, e che è come lo sguardo dello spettatore su quello che si scopre: nella Bataille era completamente frastornato da quello che si trovava davanti; qui anche lo sguardo è vergine, la differenza è che in questo caso il personaggio è fintamente naïf, ha delle ambizioni, è opportunista, ha una vita, forse anche un po’ invadente.
Abbiamo parlato di sessualità depotenziata, di libido, non abbiamo parlato di corpo. C’è una battuta che mi ha colpito, quando il baby-sitter cerca di sottrarre a una delle bambine l’ipad: «lâche-moi, c’est mon corps»... e d’altronde poi, nel film vediamo delle foto che sono scattate da una scimmia con un cellulare: qual è la riflessione, se ce n’è una, intorno al tema del corpo e dei device come protesi elettroniche, come qualcosa che fa parte di una nuova corporeità?
J.T.: Ecco, una domanda un po’ complicata... In realtà non ho fatto una riflessione organica su questo aspetto. La battuta in questione è una delle rare incursioni autobiografiche che si ritrovano nei dialoghi del film, mia figlia, che, eravamo in vacanza, mi ha proprio detto «lâche-moi, c’est mon corps».
Virginie Efira: Credo che intendesse anche parlare dell’idea di appropriarsi della vita, della vita, della nudità degli altri, attraverso i dispositivi digitali.
J.T.: Quello che mi interessava però era soprattutto che la soluzione di tutto fosse affidata a una scimmia, che si sconfinasse nell’assurdo. Certo, rientra tutto nell’idea che ho già espresso, il blog, le foto involontarie, tutto fa parte di un processo di esplosione dell’intimità, del nostro passato, che in qualche modo non ci appartiene più, in pubblico.
V.E.: Poi c’è qualcosa, a proposito della tematica del corpo, che vorrei evocare, nella scena d’amore con Vincent: Victoria cerca, lungo tutta la prima parte del film, di superare la propria inappetenza sessuale, riconosce il fatto che le servirebbe a riconnettersi con il mondo (un mondo dove appunto la sua intimità è esplosa, è di dominio pubblico), incontra persone online, con le quali poi, dal punto di vista fisico, non succede niente. Ecco, per me è emblematico di come Justine sia una regista un po’ fuori dagli schemi, il fatto che lei era con noi, sul set, molto svestita, davanti al proprio monitor, come se fosse un affaire a tre. Ci ha lasciati molto liberi, riuscendo poi a selezionare molto liberamente al montaggio dei momenti molto scelti, che fossero eloquenti senza essere espliciti.
J.T.: Esatto, a me interessava anche rilevare, in un film fino a quel momento molto verboso, un personaggio che fino a quel momento ha avuto un rapporto solo verbale, lavorativo, con la sfera sessuale, d’un tratto sia in una scena dove finalmente succede qualcosa davvero.
V.E.: Si può aggiungere anche che la giovinezza di Vincent rispetto a me sia una parte importante di questa alchimia, aggiunge qualcosa di esteticamente interessante.
Il tema del controllo, della gestione di una situazione complessa, è fondamentale sia qui che nella Bataille…
J.T.: Sì, completamente, era davvero l’idea di scalare una piccola montagna, arrivare a superare un momento di caos, con l’idea che tutto sia oggetto di negoziazione. È il motivo per cui, per me, il film non poteva che essere una commedia, altrimenti sarebbe stato terribile. È negoziazione la scena in cui Victoria deve decidere se aiutare l’amico o rischiare di perdere tutto. Ma poi, non si parla mai abbastanza di questo, ma di fronte alla scena, in tribunale, dove tutti gli sms di Victoria sono resi pubblici dall’ex, ci si rende conto della fatica di gestire, quando non si hanno più vent’anni, e si sono vissute un buon numero di esperienze amorose, tutto il caos del male che si è subito e che si è fatto, dei tradimenti e delle delusioni, riportati alla luce tutti d’un colpo. Parla di questo, il film, della gestione dei sentimenti, del sesso.
Una domanda a Virginie: nel ritratto che ti è stato dedicato da «Libération» dite che durante il tuo periodo alla tv non avevate né la scelta né l’ambizione di fare il cinema. Qui sembri trovarti a tuo agio...
V.E.: È vero, all’epoca non ero così tanto sicura di me, sentivo però una forte attrazione per il cinema, anche se all’epoca non mi venivano proposti ruoli cinematografici. Non ero ambiziosa anche se mi dicevo «tutto questo è divertente, da fare, ma sono sicura di voler ancora fare questo lavoro, tra cinque anni?». Ci sono momenti della vita nei quali non si ha proprio il massimo della sicurezza nelle proprie capacità, e allora, per non rischiare grandi frustrazioni, visto che comunque avevo già un buon lavoro, non ci pensavo troppo. Comunque, con Victoria, è la prima volta che, alla fine di un film, sento un legame che continua dopo la fine della lavorazione: di solito c’è un senso di tristezza, ma te ne fai una ragione; questa volta quasi non riuscivo a passare dalle riprese del film di Justine ad altri lavori. Per me è stata un’esperienza speciale. Non capita spesso di incontrare qualcuno con cui si condivide una visione profonda, e di conseguenza essere implicati in un ritratto femminile dove c’è effettivamente tutto quello che avete detto finora, ma non è facile parlarne, perché è implicito nella modalità in cui è costruita la storia. Forse è qualcosa di connesso anche con il suo background di studi che mi attira, la formazione come artista, ma anche il suo gruppo di amici, che mi è capitato di rivedere in seguito. Per esempio l’idea del muro di foto, che viene dalla formazione accademica, è per me qualcosa di assolutamente folgorante. E sul set era l’estrema spontaneità, il fatto che ci fossero dettagli che emergevano, si decidevano al momento, a colpirmi. Come quando, durante la scena d’amore con Vincent, mi ha detto «fai saltare il bottone in modo che si senta». Non ci si sentiva mai in gabbia, sul set.
J.T.: Alcune libertà che ci siamo presi sono state possibili anche perché tu non hai timore del ridicolo, che è una delle più grandi qualità di un attore. Perché talvolta si girano delle cose che sulla carta funzionano, ma poi bisogna verificare se funzionano in scena. Di nuovo: ho scelto la forma classica della commedia, ma per far emergere quel misto di seriosità e cinismo ho sentito l’esigenza di essere libera, al di là delle influenze di altri autori, che ci sono, di creare un senso di libertà sul set, dove mi ritrovo con altre persone, dal vivo, con la voglia di creare qualcosa che oltrepassi quel che è scritto in sceneggiatura. È davvero un’equilibrio tra l’esercizio degli strumenti del controllo, della regia, e la libertà, il piacere di vedere gli attori insieme, ognuno con la propria "musica", una libertà che a volte funziona, a volte non funziona affatto.
C’è un lavoro sugli ambienti, sugli spazi domestici, che marca la differenza con la Bataille...
J.T.: Ho una specie di ossessione per il 13° arrondissement, dove ho vissuto a lungo, e ho una certa diffidenza per l’architettura hausmanniana, che è un po’ dappertutto, da sempre, nel cinema francese di ambientazione parigina. Ho sviluppato un interesse per gli appartamenti moderni, per degli spazi che mi garantiscono immagini un po’ più neutre, che non confinino il film in una tradizione parigina, anche perché il personaggio appartiene alla middle class, e comunque il suo livello sociale non è decisivo, nella storia. Tra l’altro, visto che buona parte del film si svolge in interni, il vantaggio di girare in un grattacielo ha permesso di avere sempre della luce naturale che arriva a illuminare la scena.
Dicevamo, sei diplomata all’École de Beaux Arts, qual è l’influenza di questo percorso di studi sul tuo approccio al cinema?
J.T.: Onestamente penso che il mio percorso è atipico, non mi sono mai mai sentita al posto giusto nel momento giusto, ho avuto un percorso "diagonale". La mia esperienza nelle belle arti rimonta a tanto tempo fa: studiavo pittura e però mi sono sempre sentita una pittrice mediocre, mentre nel frattempo ho imparato rapidamente a montare, e mi piaceva molto, ho realizzato delle brevi clip, godendo della grande libertà che si vive nell’arte contemporanea, anche se quel milieu mi ha rapidamente annoiata; a quel punto mi sono distaccata da quella scena e ho cominciato a fare documentari, finché a un certo punto non ho incontrato un produttore che mi ha detto «credo che dovresti fare del cinema di finzione, perché credo che tu sia in grado di farla mantenendo lo spirito dei tuoi documentari». A quel punto ho avuto un’esperienza molto particolare, nessuno mi ha insegnato le basi, le tecniche di ripresa, le regole del campo/controcampo; al tempo stesso mi sono da subito trovata a mio agio con l’idea di avere sul set una compresenza di attori professionisti e non professionisti, e credo che faccia parte di questo senso di libertà dalle regole. È vero però che, procedendo nel lavoro, sento di essere attratta dalle regole, dalle costrizioni del mestiere. Comunque sopravvive qualcosa della mia esperienza di artista, nell’approccio al primo piano, al décor.
In ogni caso, è vero anche che, se nel precedente film avevo patito la fatica fisica e emotiva, soprattutto sul set, questa volta posso affermare di essermi divertita, potendo gestire lo stress del set senza passare attraverso momenti sgradevoli; non da ultimo per il fatto di aver avuto più budget, quattro volte quello del film precedente, e quindi più tempo. Più tempo per scegliere dei dettagli, dei colori, per l’appartamento, per il tribunale, là dove nella Bataille mi ero dovuta accontentare delle pareti bianche, un po’ sciatte, un po’ da documentario. Mi sono permessa il lusso di essere più maniacale nella messa in scena.