Lungo tutta la sua formidabile carriera, Bernardo Bertolucci, scomparso oggi all’età di 77 anni, ha spesso parlato di un’esigenza costante di rinnovamento e rinascita. E per realizzare l’ambizione di un cinema sempre giovane anche col passare del tempo, da figlio privilegiato della borghesia intellettuale; da artista provinciale e cosmopolita; da erede del padre e poeta Attilio; da amico e collaboratore di Pasolini; da allievo ideale di quelli che lui chiamava i “cineasti barocchi”, i Renoir, gli Ophuls e i Mizoguchi, al fianco di quelli che dichiarava di ammirare ma di non riuscire a raggiungere, i Bresson e gli Ozu; da compagno di strada delle Nouvelle Vague europee, in primis di Godard, che però non sempre ha ricambiato la stima, Bertolucci, nei suoi film, si è mosso lungo tre percorsi distinti ma paralleli: ha riflettuto a lungo sui concetti di identità, famiglia e radici; dall’Emilia in cui era nato ha viaggiato in tutto il mondo, vivendo a Roma, a Parigi, negli Stati Uniti, nell’estremo Oriente e confrontandosi con storie, culture e visioni diverse; ha guardato, amato, consumato il cinema fatto da altri traendone spunto per il proprio.
Per essere un grande maestro, come indubbiamente è stato e come oggi è ricordato, Bertolucci ha sempre avuto l’umiltà di porsi nei confronti del cinema come uno spettatore innamorato: quando nel 1996 partecipò in concorso a Cannes con Io ballo da sola – che segnava il ritorno a casa dopo i lunghi anni all’estero in cui aveva girato L’ultimo imperatore (1988), a oggi l'unico film italiano ad aver vinto un Oscar per il miglior film, Il tè nel deserto (1991) e Piccolo Budda (1994) – ammise il suo piacere nel guardare i film dei colleghi in gara come lui (in particolare, espresse la sua ammirazione per Goodbye South Goodbye di Hou Hsiao-hsien), mentre anni prima da presidente della giuria aveva sconvolto i piani del festival dando com’è noto la Palma a Cuore selvaggio di Lynch e il Gran premio a L’aculeo della morte di Oguri Kohei…
Sempre attento, avido d’immagini e stimoli, come avrebbe dimostrato a fine anni 90 con L’assedio (1998), ispirato nello stile libero ed ellittico al cinema che all’epoca facevano cineasti molto più giovani di lui, come Wong Kar-wai o Assayas, e qualche anno dopo in maniera fin ingenua in The Dreamers (2003), che della Nouvelle Vague intendeva recuperare il furore ideale, cinematografico e pure sessuale della giovinezza finendo però per dare alle sue stesse immagini un senso funereo forse involontario, Bertolucci ha coltivato e realizzato il sogno del cinema in quanto arte per sempre giovane; in quanto sguardo della gioventù sul mondo. Per lui, anche se non ha mai rilasciato dichiarazioni in merito (e contrariamente a quanto ha sempre pensato Godard), il cinema non ha mancato il Novecento: l’ha divorato, anzi, e se ne è fatto divorare, in un gioco di specchi fra storia personale e Storia ufficiale che dei suoi film è stato la fonte principale.
Senza dover per forza fare degli elenchi su titoli conosciuti e visti più o meno da tutti, vengono in mente le riflessioni sul concetto di identità e tradimento nella storia italiana, e di paternità e libertà filiale, in Prima della rivoluzione (1964) e Strategia del ragno (con Giulio Brogi che interpreta il figlio protagonista e il padre di quest'ultimo da giovane e Alida Valli sempre vecchia e sempre giovane che lega il film a Senso di Visconti e di rimando la Resistenza al Risorgimento e il dramma intimista a quello realista…); o l’analisi del rimosso fascista, e insieme di un’omosessualità soffocata, in Il conformista, nei cui spazi razionalisti magnificamente ripresi da Vittorio Storaro risiede l’ambiguità di una relazione puramente estetica con una storia sbagliata e criminale; o ancora il ripiegamento nel privato di fine anni 70 e inizio 80 con due film all’epoca giudicati minori ma oggi ritenuti fondamentali come La luna (1979), che dopo Novecento (1976) riprendeva in chiave psicanalitica il rapporto con l’opera e da Prima della rivoluzione ereditava il tema dell’incesto, e La tragedia di un uomo ridicolo (1981), lucidissima opera sul fallimento delle lotte politiche e dell’eredità familiare.
Nel cinema di Bertolucci sono sempre state presenti due anime: una grandiosa, spettacolare, votata all’affresco storico e ai grandi attraversamenti spaziali e temporali (Strategia del ragno, Novecento, L’ultimo imperatore, Il tè nel deserto, Piccolo Budda, The Dreamers) e una più intimista, privata, claustrofiliaca più che claustrofobica (Ultimo tango a Parigi, 1972, Io ballo da sola, L’assedio, Io e te, a suo modo ancora The Dreamers). In Bertolucci c’era lo spirito del viaggiatore, del curioso, forse dell’ingenuo, mai dell’esule: i suoi frequenti ritorni a casa, in Italia, a Roma, nella sua Emilia (dove girò con star francesi e hollywoodiane il suo film più affascinante e irrisolto, Novecento per l'appunto), non erano mai ritorni obbligati ma nascevano da esigenze personali e cinematografiche. Pochi cineasti, anche dotati della stessa ambizione e dello stesso istinto per un cinema d’autore grandioso e spettacolare, hanno saputo appropriarsi di una varietà così ampia di stili, sguardi, tradizioni e influenze come Bertolucci: dalla citata Nouvelle Vague al cinema hollywoodiano, da Pasolini (sceneggiatore del suo primo film, La commare secca, 1962) a Borges, da Moravia a Sade e Bataille, dalla filosofia orientale al dialogo fra culture di Piccolo Budda, dalla grandiosità dei movimenti di macchina di Novecento alla sua ossessione, come diceva a proposito dei suoi anni giovanili, di girare le inquadrature “strette strette”, alla Bresson...
E non c’era mai esaurimento, nel Bertolucci cineasta: il desiderio di ricominciare e ripartire (che professionalmente arrivava improvviso e un po’ a tradimento, come ha detto McEwan della decisione di Bertolucci di mollarlo su due piedi mentre lavoravano a una sceneggiatura da 1934 di Moravia per andare in Cina a girare L’ultimo imperatore) era desiderio dell’ignoto, voglia di osservare il mondo nella sua dimensione conflittuale e trasformare l'effettiva e potenziale violenza della Storia in lavoro psicanalitico sul privato, l'intimità in materia comune, l’attrazione in creazione.
«Il turista è uno che appena arriva pensa di tornare a casa, Tunner…» dice Kit all’inizio di Il tè nel deserto. «Mentre il viaggiatore può non tornare affatto...». Bertolucci, ovviamente, era un viaggiatore. Ma quando tornava era per rigenerarsi. Anche a scapito del suo stesso cinema: mettere a confronto oggi Il tè nel deserto e Io ballo da sola, ad esempio, è quasi impietoso, tanto il primo è l’espressione di un’anima viva ma dolente, forse stanca di mancare da casa, e il secondo, nei suoi movimenti di macchina dolcissimi, nel suo montaggio fluido, nella sua luce calda, nel suo spirito puramente cinematografico che nasce dal dialogo con il direttore della fotografia Darius Khondji e il montatore Pietro Scalia, è l’opera di un grande cineasta prima di tutto innamorato del proprio mestiere.
I corpi celeberimi e iconici di Ultimo tango a Parigi, per questa stessa ragione, resteranno per sempre carichi di un desiderio irrefrenabile, violento e purissimo; alla stessa maniera delle luci di Storaro all’inizio di Novecento, così naif e verde smeraldo da essere commoventi, della finzione “ophulsiana” dietro i finestrini del treno che porta a Parigi il protagonista di Il conformista, o ancora della rabbia animalesca degli attori del Living Theater in Agonia, episodio del film collettivo Amore e rabbia (1969), pieno di quello spirito sessantottimo che Bertolucci aveva già sfogato in Partner (1968), il suo film più intellettualmente ambizioso e forse datato.
Anche laddove il suo cinema è stata sorpassato dal tempo e dagli stili, anche laddove la stessa ansia di rinnovamento ha talvolta tradito una foga non sempre controllata, un istinto liberatorio tenuto a stento a bada, il cinema di Bertolucci è rimasto nella sua complessità e spettacolarità una sinfonia pienamente novecentesca. Un’opera musicale spezzata, arricchita e distorta da magnifiche, contraddittorie incursioni di atonalità; un melodramma popolare (e sul suo legame con Verdi e questa tradizione tutta italiana si è scritto tanto, soprattutto in riferimento all’amato, odiato, meraviglioso e orripilante Novecento) che è arrivato a farsi leccato, pretenzioso, puro, osceno, rivoluzionario e bellissmo, e proprio grazie a questa inesauribile ricchezza ad affermarsi in quanto cinema totale, summa di tutte le altre arti, voce della Storia ed espressione di un’anima.
Grazie, maestro.