Quando giunse in Italia Vivere e morire a Los Angeles era il 24 aprile 1986. Io avevo quindici anni, avevo già visto sia Cruising, in VHS, sia L’esorcista, su Italia Uno, ed ero a Sestriere con i miei genitori. Non arrivò nel cinema locale, l’unico, ma sapevo della sua uscita, e tenevo d’occhio le sale delle vicinanze. Arrivò in una località non troppo distante, non ricordo quale. Costrinsi mio padre a mettersi alla guida; mia madre aveva il mal di testa, ne pativa spesso all’epoca, ma venne con noi ugualmente. Non ne sono certo, ma credo non cenammo neanche. La strada era tutta curve, probabilmente dall’altra parte della montagna: non così vicino come immaginavo. Riuscimmo ad arrivare per tempo, anche con largo anticipo, come piace a me, come mi ha insegnato mio padre, e come piace a me ancora oggi. Il film era vietato ai minori di 14 anni, tutto a posto, per me non c’era problema. Non ho memoria della reazione dei miei genitori, ma confido piacque loro molto. Ho invece memoria della mia, di reazione. Non mi pentii di avere costretto mio padre e mia madre al viaggio tortuoso e ben poco comodo.
È un aneddoto come tanti, e neppure troppo avventuroso, però mi pare adeguato a spiegare perché ho sempre pensato che per William Friedkin, morto a Los Angeles lunedì 7 agosto a 87 anni, il cinema fosse una questione privata. Un affare personale. Come se ogni volta dovesse affrontare la sfida di una vita e cambiare le cose. Cambiare il cinema. L’ha fatto. L’ha cambiato. O quantomeno ha cambiato i connotati del mainstream proprio quando il mainstream stesso boccheggiava. Era la fine degli anni 60, erano gli inizi degli anni 70, la New Hollywood spingeva e lo studio system crollava sotto i suoi stessi principi. E Friedkin capì che la rivoluzione poteva avvenire anche da dentro. Sotto i riflettori. Agli Oscar. Una rivoluzione appunto in prima persona, a testa d’ariete, contro il buon gusto e gli stereotipi. D’altronde lui è stato uno che gli stereotipi li ha sfruttati come arma.
Ha sempre voluto farsi sentire, Friedkin. E per farsi sentire, a Hollywood, bisogna mettere in conto le polemiche, la polvere negli occhi, le spine nel fianco, gli scandali. Gli è andata bene, all’inizio. Quando fece fronte al conformismo del pensiero comune e borghese (Festa per il compleanno del caro amico Harold), quando osò mettere in scena la Fede e il Male assoluti (L’esorcista), quando confidò così tanto nel genere puro da cavarne il succo – astraendolo – e convincere perfino l’Academy che potesse essere il miglior cinema possibile (Il braccio violento della legge). Riuscì allora a opporsi a tutti, Friedkin, anche a uno non proprio facile come William Peter Blatty: imporsi, al di là di qualunque affermazione autoriale, per lui significava non soltanto non darla vinta ai compromessi, ma soprattutto essere intellettualmente onesti. Con se stessi, per giunta, tanto gli altri dopo un po’ dimenticano. Non meravigliamoci quindi se poco dopo, diciamo dalla nascita del blockbuster moderno, intorno alla metà degli anni 70, il sistema gli ha chiesto il conto e gliel’ha fatto pagare. Friedkin ha insistito con le sfide, ma ormai tutte erano prevedibilmente destinate al fallimento: la sfida con la natura e il denaro (Il salario della paura), con l’egemonia ideologica (Cruising), la sfida con il pop (Vivere e morire a Los Angeles), la sfida con tempi già perduti (Assassino senza colpa?, Jade). Friedkin come Herzog, sebbene quest’ultimo, in piena indipendenza, non ha mai voluto puntare l’indice contro nessuno, tantomeno contro l’oligarchia delle immagini. Al contrario Friedkin non ha mai abdicato alla propria missione originale. Quella che gli ha portato prima gli allori, e poi l’ha condannato. È il destino di chi non ci sta, come Peckinpah. Di chi – direbbero i romantici – insegue una visione personale a dispetto di tutto e di tutti. Solo che poi ad averla vinta sono loro, i romantici. A dare loro ragione ci pensa la Storia. In particolare quella del cinema. E delle immagini. Alla faccia dei benpensanti, dei produttori, degli inquisitori della morale.
Incontrai William Friedkin al Noir in Festival di Courmayeur. Era il 2000. Si presentò indossando dei doposcì scamosciati. Gli confessai che L’esorcista e Cruising mi avevano cambiato la vita, e che per il film con Al Pacino i tempi a mio parere non erano pronti, perciò lo ritenevo così importante e decisivo. Lui mi parlò con molta chiarezza e molta calma, non c’era nessuna fretta, nessuna rabbia. Anche in quel momento, che di anni ne avevo un po’ più di quindici, ho creduto che si stesse rivolgendo a me a titolo personale. Quasi confidenziale. Ecco, per me il cinema di William Friedkin è una questione privata. Un affare personale. So bene di non essere l’unico. Ciò mi rincuora.