Ritratto umano, incontro del diverso, sintesi degli opposti. Sullo sfondo della periferia romana, il film di Roberto De Paolis dipinge mondi agli antipodi per farli collidere.
È un incontro/scontro, infatti, quello con l'Altro; che è diverso, sì, ma neanche tanto. Come Stefano e i Rom, come il prete e i giovani liceali, come quel microcosmo casa-e-chiesa abitato da Agnese e la dura vita della strada con cui Stefano si trova a fare i conti.
Proprio nella diversità – di religione, di etnia, di vita – l'incontro si dimostra possibile, e il trovarsi diviene ancora più concreto, più reale, tanto più forte quanto meno necessario. Perché al di là delle differenze, oltre l’inevitabile collisione, esistono delle costanti che qualificano l'essere umano come tale. Tratti cui quei personaggi così al limite di Cuori puri, sintetica eppure universale enciclopedia umana, non possono fare a meno di cedere. Nessun dubbio, infatti che gli uomini siano accomunati dalla paura e marchiati dal peccato.
Nondimeno esiste un altro stato che è luogo ideale di incontro tra divino e terreno, confronto tra Dio e uomo. La purezza, ossigeno del film e motore dei due protagonisti. Una condizione che non necessariamente coincide con un'integrità esteriore, corporea. Perché tutto, nel film come nella vita, è troppo umano per custodirsi incontaminato; e tuttavia permane qualcosa di divino in questo candore di spirito, così difficile da trovare ma capace di attirare, con la carica di un magnete, il cuore buono di chi si trova accanto, conoscerlo e redimerlo. Fino a incontrare coloro che dell'innocenza sembrano essere l'antitesi vivente, per sfortuna o per colpa.
D'altra parte essere umani significa anche questo, vivere continuamente delle proprie contraddizioni, tra il bene e il male, tra Dio e il demonio, tra il “sacrificio” e il “divertimento” – parole spogliate di un impreciso significato secolarizzato e reinvestite dell'originale etimologia grazie al parroco, l’educatore dei ragazzini. Lo stesso che, al contrario dell’altra figura autoritaria, l'apprensiva madre di Agnese, si apre all'accettazione e alla sincera promozione del libero arbitrio, alla possibilità del dubbio, ad una religione che non deve essere necessariamente privazione o punizione, ma libera scelta nel nome di un amore cristiano e di un cuore semplice. E lo fa nell'incontro con i giovani, che al pari di Agnese conservano ancora frammenti di quella incorruzione infantile e sincera ferita quasi irreversibilmente dall’esperienza.
A ben vedere, infatti, la punizione, in Cuori puri, non è divina. È l'uomo stesso a farsi vendicatore, innanzitutto l’intransigente madre di Agnese, ispettrice invadente della vita della figlia, superba giustiziera delle azioni degli altri e cultrice del rito e dell'apparenza.
Con i suoi personaggi, straordinari ma non meno reali, De Paolis recupera l’eterno scontro tra uomo e Dio come inevitabile scarto tra superficie e spirito. Se la purezza è attributo divino, non può essere vincolata a un fatto corporeo. Beati non saranno quelli che portano un bell'anello al dito simbolo di castità. Beati saranno invece i puri di cuore, quelli mossi dall'amore – massimo insegnamento cristiano –, un sentimento forse più grande degli uomini ma che proprio dall’essere umano scaturisce, dal Dio incarnato che ha rinunciato ad una condizione di divinità per i suoi propri figli. Puro, infatti, è chi, incurante di quanto l’ortodossia di una religione male interpretata ritiene giusto, è in grado di darsi all’altro.
Giustizia, libertà, bene e male sono, alla fine, concetti relativi.
L'errore è ammesso, è concesso a tutti. Perché, malgrado la costante aspirazione dell'uomo alla perfezione, l'umanità ha sempre la meglio.
Ma il divino, "come un GPS, ricalcola il percorso" e lo riporta a casa, in una corsa senza fiato. Come quella di Agnese che impara a seguire una sola direzione, quella giusta, verso l'altro, e che culmina in un abbraccio, un incontro di due cuori, diversi, puri.