Quello di Alex Garland è un cinema dall’approccio quasi “scientifico”. La sua fantascienza sembra da sempre più interessata alla “science” che alla “fiction”, riuscendo però, nonostante questo, a regalare storie in perfetto equilibrio tra i due elementi. Non è sicuramente un caso che le coordinate narrative dei racconti di Garland conducano sempre i protagonisti ad appartarsi o a rinchiudersi in un luogo circoscritto e isolato, quasi a volersi arruolare volontari per partecipare a un esperimento ed essere studiati dal regista e dallo spettatore.
Così, dopo il laboratorio/bunker di Ex Machina, l’Area X di Annientamento e il campus universitario della serie Devs, anche in Men l’isolamento diventa il punto di partenza del racconto.
La storia è quella di Harper, che in seguito al suicidio del marito decide di abbandonare l’appartamento cittadino per staccare e ritrovare la pace con se stessa nella tranquillità della campagna inglese. A sabotare il suo tentativo di evasione, qualcuno o qualcosa che inizia a seguirla durante una passeggiata nel bosco. Anche qui, dunque, una casa immersa nel nulla, una protagonista minacciata e uno approccio analitico e quasi scientifico verso una situazione estrema. Quello che cambia in questo caso è però il genere di riferimento: non più la fantascienza ma l’horror.
Quello proposto da Garland è un cambio di registro sicuramente spiazzante: il suo stile scientifico, simmetrico e ordinatissimo – perfetto per valorizzare la sua idea di fantascienza - virato su atmosfere orrorifiche non sembra mantenere la stessa efficacia. Sebbene le situazioni di tensione siano presenti e funzionino tutto sommato abbastanza bene, l’atmosfera generale, l’incubo che si materializza, si evolve e si espande non trova la giusta elettricità emotiva. Le paure e le ossessioni della protagonista rimangono apparentemente ingabbiate in una griglia visiva troppo rigida, che in alcune occasioni finisce col soffocarle. Se però si mette in relazione questa scelta di regia con quello che ha sempre dimostrato di voler raccontare e far emergere dalle proprie storie Garland, ecco che anche questa nota stonata può assumere un valore diverso.
Ripensare all’idea di analisi scientifica alla base delle sue narrazioni ricolloca il focus su un aspetto diverso del racconto: non tanto quindi l’atmosfera tesa e la casa assediata quanto piuttosto la distruzione – teorica, simbolica e brutale – del genere maschile. Non a caso è un aspetto che Garland dichiara fin dal titolo del film e che poi sottolinea anche in corso d’opera attraverso la scelta dell’attore unico per rendere il discorso universale. Questo è d’altronde un discorso che il regista britannico sta portando avanti fin dal suo esordio dietro la macchina da presa, dal momento che Ex Machina si concludeva con la nascita di un’iperumana sintetica autosufficiente e totalmente superiore ai propri creatori e anche in Annientamento Natalie Portman riemergeva dall’Area X geneticamente modificata ed evoluta.
Ripercorrendo queste tappe, diventa assolutamente evidente come Men, nonostante il cambio di registro, sia la prosecuzione di un discorso che Garland porta avanti in modo quasi ossessivo: il superamento e l’annullamento del genere maschile. Mai come in questo caso però la distruzione è così carnale, violenta ed esplicita. E quindi la scelta dell’horror al posto della fantascienza valorizza e pone l’accento sul discorso teorico messo in scena. E in questo senso anche la “rigidità” formale può apparire più funzionale alla lettura teorica rispetto a un primo sguardo. In fin dei conti, se quello di Alex Garland è un cinema dall’approccio quasi “scientifico”, è in modo “scientifico” che va guardato.