Per mettere in forma il progetto, i registri e i personaggi di Emilia Pérez bisogna partire dall’ultima scena, in cui la statua di Emilia, come una Madonna pagana e con la mano sinistra coperta da un fazzoletto per nascondere le due dita amputate, viene portata in corteo, mentre la folla la celebra con un inno costruito sulle note, e in parte sulle parole, de Les Passantes di Georges Brassens e Antoine Pol, interpretata anche da Fabrizio De André come Le passanti, nell’album Canzoni. Lo spettatore italiano, nel film, sente anche altri echi di De André, quello di Crueza de mä, con le sue eroine perdute, sante e puttane.
Emilia Perez è un musical, costruito in quattro atti operistici, con una scansione regolare di parti cantate e numeri coreografati, scritti dall’artista francese Camille (le parole con Audiard, la musica con il compagno Clément Ducol), anni luce distante da La La Land, forse più vicino a un Les Parapluies de Cherbourg di Jacques Demy, ma girato da Pedro Almodóvar.
È camp, kitsch, e non soltanto perché racconta la transizione sessuale di un narcos messicano, Juan Manitas Del Monte, che vuole ottenere il corpo femminile che ha sempre desiderato vivere.
Il lavoro sul corpo è il tratto essenziale del film, a partire da quello della protagonista, Karla Sofía Gascón, attrice che ha realmente sperimentato la transizione di genere e ha fortemente voluto interpretare (nonostante le perplessità iniziali del regista) entrambi i ruoli: quello di Manitas e quello di Emilia.
Una straordinaria iperbole attoriale, che l’ha portata a essere l’uomo che non è più (Carlos) e anche quello che non è mai stata, perché Manitas spiega bene di aver dovuto, contro (o forse solo ai margini de) la sua volontà, essere il più spietato, spregevole, animale del “porcile” in cui è vissuto, quello dei narcos: padre amorevole, marito distante, assassino ferale.
Ma insieme Gascón interpreta anche la donna che è già stata e non è più, perché la sua Emilia si inebria dell’iper-femminilizzazione entusiasta immediatamente successiva alla transizione, marcata dall’eccesso (di abiti, trucchi, protesi) che le deriva dalla spropositata ricchezza della sua precedente attività criminale.
E alla fine di questo percorso si fa corpo ligneo, statua, idolo.
Zoe Saldana è Rita, la promettente avvocatessa che accetta di aiutare prima Manitas (per denaro) a organizzare il cambiamento di sesso e l’allontanamento della moglie e dei figli, e poi Emilia a fondare (per ideale) l’associazione La lucecita, che aiuta i parenti dei desaparecidos a recuperare i cadaveri dei propri cari uccisi dai narcos.
Anche il suo personaggio, che illumina la scena dentro e fuori i numeri di balletto, si trasforma al mutare della condizione economica, dentro e fuori, da “dottorata” sotto-pagata a ricca socialite londinese, poi pasionaria e insieme personaggio pubblico di found rising.
È un film sul denaro Emilia Pérez, sul suo potere di corruzione e salvazione. Audiard è spietato, non cinico, brutale, crudele, e non nasconde mai che tutto ciò che Emilia e Rita ottengono è il frutto della fortuna di Manitas. Non c’è niente di pulito, nemmeno la prigione dorata dei bambini, l’incontro d’amore di Emilia con Epifanía, l’azione di volontariato. Tutto è marchiato dal Male.
Le trasformazioni, che il registro del musical rende fantastiche, extra-ordinarie (molto più che in The Substance di Coralie Fargeat) danno corpo, letteralmente, a tutte le ambiguità, le doppiezze, le ipocrisie dei personaggi: Manitas ha già dentro di sé una parte di Emilia (l’amore incondizionato per i figli, il desiderio di abbandonare l’attività criminale), da cui però non può affrancarsi se non simulando la propria morte e rinascendo come araba fenice. Non ha la possibilità di scegliere: non può essere Emilia e anche avere, non può liberarsi del fantasma di Manitas (come canta il chirurgo israeliano che la opera), perché le impedisce di essere padre e madre dei suoi figli, relegandola al ruolo ibrido di tia, zia.
È un “film tia” questo Emilia Pérez, esorbitante nel suo regime di base, che più del musical è il melodramma, genere femmineo (non femminile) per eccellenza, ma insieme gangster movie e dramma sociale. Del suo camaleontico regista ha tutte le esperienze passate: la differenza (differance, à la Derrida, non diversità) fisica (Sulle mie labbra, Un sapore di ruggine e ossa), il sogno infranto e ricercato (Tutti i battiti del mio cuore), il crimine (Il profeta, Dheepan), la condizione degli ultimi (Parigi, 13Arr, e tutti gli altri), il western (I fratelli Sisters, ossimoro profetico).
È un film sulla tragedia sociale del popolo messicano che vive tutti i giorni la dittatura dei narcos e le discriminazioni di genere, e insieme sulla forza soprannaturale dell’animismo che feconda e infervora la religiosità popolare. Audiard è molto attento a lasciare fuori (campo) tutto l’immaginario di entrambi i mondi, si tiene lontano dal primo come genere (abitato da Sicario di Dennis Villeneuve, e Soldado e ZeroZeroZero di Stefano Sollima) e dal secondo come appropriazione culturale.
Ma Emilia, per tornare alla sua statua in corteo, a Brassens, a De André, è una sacerdotisa de la muerte, divinità pagana con le mani sporche di sangue e smalto, il volto (già) morto pittato di trucco, i vestiti colorati, è cangiante, soprannaturale, più che uomo e più che donna.
È guardare in faccia l’orrore e desiderare di esserne baciati.