Fuori concorso

Furiosa: A Mad Max Saga

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Difficile che un prequel sia all’altezza del suo precedente “sequel”. E invece George Miller, che nove anni fa aveva resuscitato la sua saga originaria e reinventato l’action distopico con Mad Max: Fury Road, anche questa volta riesce nel difficile intento di raccontarci com’è nata, cresciuta, come ha perso il braccio ed è diventata una combattente delle strade polverose del futuro la scene stealer del film precedente. Giustamente qui eroina eponima: Furiosa, nel 2015 l’indomabile Charlize Theron, oggi interpretata dalla decenne Alyla Brown (una tomboy scatenata, con tanta grinta) e da Anya Taylor-Joy (tutta elasticità e, soprattutto, occhi).

Storia della maturazione di una ragazzina strappata dal proprio matriarcale Luogo Verde dell’Abbondanza e della Pace, dove ci sono piante, acqua e i bambini crescono con i denti sani e la pelle compatta, rapita da una banda di motociclisti folli e medievaleggianti guidati dal megalomane Dementus (nomen omen), Furiosa accompagna la protagonista attraverso gli anni e i “sovrani” ai quali viene venduta (Immortan Joe), durante i quali lei coltiva l’odio per Dementus e tutti gli orridi signori della guerra, ma anche svariate abilità fisiche, tecniche, meccaniche, belliche. Allenata da Pretoriano Jack, diventa lei stessa una Pretoriana, una che sa attraversare il deserto con ogni mezzo senza mai perdersi, dalla Cittadella di Immortan a Gastown a Bullet Farm al Terzo polo della Desolazione, e che sa combattere, spietata come i tanti maschi folli che le hanno rubato l’infanzia. Sempre sul chi vive, sempre trascinata (come gli spettatori) in un cortocircuito di azione senza fiato e senza soste, tra le mirabolanti macchine da guerra dove si mescolano archeologia meccanica e tecnologia futuribile, autocisterne distruttive e parapendii metallici, moto di tutti i tipi e una biga trascinata da tre moto (il mezzo di Dementus), insieme a un trovarobato casalingo quasi vittoriano, orsacchiotti, copricapi stile Mefistofele, microfoni ingombranti, medaglie belliche, riproduzioni preraffaellite, tutto raccattato chissà dove dagli ormai anonimi e dissennati guerrieri o, chissà, portato da casa, quando ancora avevano una casa. Visioni surreali rombanti nell’outback australiano, non più stupefacenti come accadde con Fury Road, ma comunque potenti, evocatrici di ricordi, sussulti, miti.

Perché in fondo proprio di miti, di mitologia classica (ufficiale o “marginale”, cioè al femminile), di tragedia (più greca che shakespeariana), di percorsi e scontri omerici ci parla l’affabulatore, il favolista George Miller, con il suo sceneggiatore Nico Lathouris (non a caso, prima di tutto attore e regista teatrale e drammaturgo), di dilemmi e psicologie sedimentate nel nostro passato, come ricorda l’inquietante, vecchio Uomo Storia che Dementus si porta appresso in un gabbione. Sì, anche psicologie, perché sotto Furiosa corre uno studio dei personaggi e della loro evoluzione: non solo la protagonista, ma anche il Dementus di Chris Hemsworth, in bilico sul registro comico, e il Pretoriano Jack di Tom Burke, quello che intuisce le qualità di Furiosa, che dialoga con lei con gli sguardi e con il quale, in un altro momento, un altro cinema, un altro mondo sarebbe potuta nascere una storia d’amore. Ma non può esserci nessun amore, nessun tenero teddy bear per crescere e sopravvivere nel mondo post-apocalittico di Furiosa. Solo, al di là della vendetta, un incrollabile senso della giustizia, un albero, il ricordo di una Terra Verde.