Alpha (Mélissa Boros) ha 13 anni e, come a volte accade ai ragazzi, ha esagerato a una festa. Quasi in stato confusionale si fa tatuare in maniera non esattamente asettica l’iniziale del suo nome sul braccio. Una lettera scarlatta incisa nella carne. La madre (Golshifteh Farahani), dottoressa sfranta in un ospedale in sovraffollamento, la soccorre nella sbornia alcolica ma resta sconvolta dai pericoli del tatuaggio. Siamo nel 1990 e una pandemia misteriosa affligge il quotidiano. Alpha potrebbe aver contratto, a causa di quel marchio, il virus che sta devastando il mondo. In attesa di un responso di analisi, Alpha affronta una sorta di bullismo scolastico a cui reagisce con fermezza, ma a casa lo zio tossico Amir (Tahar Rahim), riapparso dopo anni, invade i suoi spazi e i suoi affetti.
Julia Ducournau torna a Cannes, quattro anni dopo la generosissima Palma a Titane, raccontando un passato ipotetico e feroce, ricostruendo il terrore dell’Aids mescolandolo con le suggestioni pandemiche a noi più vicine dei tempi del Covid. E lo fa spiattellando un’intuizione visiva fortissima: in quel mondo schiaffeggiato da una sabbia rossiccia che tende a coprire tutto, la gente muore – in un vortice che coinvolge droga e sessualità come veicoli di trasmissione tossica e malata – letteralmente pietrificandosi. Il corpo della malattia non si consuma e decompone, invece si marmorizza, fondendo morte e materia inanimata, senso del pericolo e plasticità minerale. La carne non si decompone, si fossilizza. Un altro esempio di “morte al lavoro”, che toglie vita e movimento riducendosi a scultura, a memoria di ciò che potrebbe essere e non sarà.
Alpha in fondo racconta e immerge figure – personaggi – in un paesaggio che ha il sapore dell’Apocalisse, in un passato che porta in sé la maledizione del futuro (e non sono casuali i frequenti salti temporali e il suo andamento liturgico, quasi sacrale), in un crocevia di sentimenti che rappresenta il cuore del film. Il cinema di Ducournau è, nel bene e nel male, sempre una questione di corpi: dalla pulsione cannibale di Raw all’ibridazione tra carne e metallo di Titane. Qui il nocciolo della questione resta l’ipotesi di una mutazione, il silenziamento di qualsiasi afflato vitale nel gelo di un marmo.
Ducournau è consapevole della propria intuizione e gioca alternando accumulo e distillazione. Se Titane era un film succube di un’idea, esasperata e quindi fondamentalmente furba, Alpha è un film più rischioso e libero, in cui il singhiozzo della narrazione non soffoca l’empatia con i personaggi né la loro tridimensionalità. La triangolazione sentimentale dei protagonisti – una madre dolorosa, un figliol prodigo seppure tossico, una ribelle in cerca di redenzione non programmata – assume, nella costruzione errabonda del racconto, un senso compiuto. Alpha è una sopravvissuta malgrado lei, l’accudimento è una materia ancora da imparare, l’amore un mistero tutto da svelare.
Ducournau gioca con la messa in scena, costruisce l’immaginario di un mondo che mostra già la sua tendenza a immobilizzare il futuro, saltabecca con la cronologia di un tempo interno (con risultati anche zoppicanti) per restituire un tempo dettato però sempre dagli affetti. Alpha è, in fondo, un film tremendamente sentimentale, arruffato per un certo eccesso di generosità (e viziato da digressioni anche modaiole), ma che racconta – pur con qualche eccesso di metafora – il fondamentale motore dell’amore familiare. Madre/Madonna (personaggio non a caso senza nome, compreso nella sua funzione), Amir e Alpha sono monadi che cercano di abbattere barriere, sommerse ma non spezzate dal dolore della perdita.
C’è chi sopravvive e chi no, in Alpha. Ma il senso della lotta resta forte. Ducournau si espone con coraggio, rischiando di sbagliare – e sbagliando, forse anche per eccesso di sicurezza. Ci regala però un film coraggioso e non scontato, nonostante gli alti e bassi di una sceneggiatura non sempre coerente, che riflette su tematiche che attingono a un “contemporaneo assoluto”, fatto di destini non ancora segnati e di vittime ancora senza colpe. Una distopia che unisce paure passate e traumi recenti, coprendo di polvere il corpo vitale di un adolescente che non si arrende alla sofferenza e che, imparando da un dolente passato, saprà – forse – fare i conti con il proprio futuro.