Concorso

Eagles of the Republic di Tarik Saleh

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George Fahmy è il più grande attore d’Egitto, il faraone dello schermo, veste indumenti di seta, ha una casa lussuosa, una ex moglie che lo detesta parcheggiata in un appartamento popolare, un figlio che lo tollera e un’amante molto più giovane. È all’apice della carriera, il pubblico lo adora, il suo volto tappezza la città, e per questo viene scelto per interpretare il Presidente Abdel Fattah al-Sissi in un film che ne celebra l’ascesa politica, La volontà del popolo.

Più cinico che impegnato, vorrebbe rinunciare ma la sua partecipazione viene ampiamente caldeggiata da un oscuro rappresentante del regime, che si presenta come produttore del film ma si intuisce esserlo anche del regime stesso, burattinaio, cigarette smoking man, quadro dei servizi segreti. Vestire i panni, e talvolta anche la divisa, del Presidente è un ottimo modo per evitare che il figlio possa incorrere in un malaugurato incidente d’auto e il contratto prevede anche una lettera di suicidio, non si sa mai

Tarik Saleh, regista svedese di padre egiziano, persona non grata per il Potere, chiude la sua trilogia, dopo Omicidio al Cairo e La cospirazione del Cairo, con un ideale «Film al Cairo» che contiene gli elementi dei primi due: Fahmy si trova invischiato in una cospirazione ordita dal Ministro della Difesa e che porterà alla morte dei congiurati.

Sospeso tra satira e (lasca) traiettoria da spy story, è un racconto inscritto nella cifra dell’ambiguità. A partire dall’innesco narrativo: è la celebrità dell’attore che lo condanna a essere scelto per la parte, ineluttabile convergenza di eccezionalità (il più famoso per il più potente, un faraone per un altro faraone), anche se lui è alto, betulloso, nasuto e pieno di capelli quanto l’altro è basso, rotondo e calvo.

Anche l’attacco frontale al regime, che questa volta viene chiamato per nome e cognome con l’iperbole del biopic, esonda (e un po’ scivola) tutto intorno ad al-Sissi, possibile vittima di un contro-potere marcio quanto (ma non più di) lui, alimentato dall’annientamento della democrazia, degenerazione della dittatura, come ogni contro-golpe.

Se lo studente coranico di La cospirazione del Cairo si dimostrava un sorprendente doppio e triplo giochista, Fahmy è piuttosto un ignavo, un corpo molle all’interno dell’ingranaggio, in formidabile contraddizione sia con la fisicità dell’interprete libanese Fares Fares che con la solidità dell’icona che dovrebbe rappresentare.

Che è già, di per sé, labile, appena fuori dalla finzione dei ruoli (nei film di cui è star e nel mondo scintillante delle feste): lo umilia il farmacista da cui va a comprare il Viagra, ma anche l’attrice che scambia l’amante per sua figlia, o il vescovo copto che lo obbliga ad andare alla celebrazione religiosa con la moglie. L’assorbimento riluttante nella cerchia del potere potrebbe implicare una forma di resistenza, addirittura di smontaggio, quando usa la sua influenza per far scagionare il figlio di un amico (accusato per un post anti-regime sui social) e per agevolare la carriera di una collega finita nella lista nera. Ancora di più quando seduce la moglie del Ministro.

Paradossalmente, Saleh è più elegante e sottile proprio nel mettere in scena la parabola discendente del suo protagonista che, inconsapevolmente, getta l’amica attrice in un gorgo di violenza, fino alla morte, e che si trova pedina della congiura (proprio il suo discorso più abbietto e prono innesca l’attentato), oltre che fedifrago da operetta (il tradimento era pedinato e tollerato, la fuga con l’amante nel suo appartamento di Dubai subito disinnescata).

Paga, al contrario, qualche leggerezza nella costruzione della trama di genere, per quanto motivata dalla volontà di svelare le abiezioni della dittatura: è piuttosto improbabile che uno scontro a fuoco durante una cerimonia di celebrazione delle forze militari, a cui partecipano centinaia di persone, venga completamente obnubilata nei servizi televisivi, che un Ministro della Difesa venga freddato con un colpo di pistola nel deserto, che i traditori volino giù da un elicottero dopo un interrogatorio lampo.

O forse no, è semplicemente poco solido dal punto di vista della scrittura cinematografica, ma tragicamente possibile nell’Egitto contemporaneo. Come ricorda, allo spettatore italiano, la vicenda di Giulio Regeni, il peggiore film possibile del nostro tempo.