Cannes première

The Disappearance of Josef Mengele di Kirill Serebrennikov

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In una scena verso il finale del film, Josef Mengele (interpretato da August Diehl), in fuga attraverso il Sud America – prima nell’Argentina peronista, poi nel Brasile della dittatura militare – è in preda al terrore di essere catturato e alla paranoia per l’aura di terrore che la sua figura suscita in tutto il mondo. Dopo l’arresto di Eichmann nel 1960, infatti, era diventato il ricercato numero uno dal governo israeliano. Sfogandosi con il fratello, si chiede perché proprio lui sia finito al centro dell’attenzione – guadagnandosi il soprannome di “angelo della morte” – sostenendo che c’erano almeno una ventina di altri medici nazisti responsabili di atrocità peggiori delle sue.

Già, perché proprio lui? Forse perché fu il medico di Auschwitz, l’uomo che incarnò con inquietante zelo la scienza piegata alla barbarie. Forse perché la sua ossessione per l’eugenetica evoca un orrore glaciale, più sottile e persistente delle altre crudeltà compiute dai suoi colleghi. O forse perché la sua fuga – lunga, silenziosa, inquietante – si è trasformata in leggenda, alimentata da complicità internazionali e silenzi colpevoli. Fatto sta che Mengele è diventato, nel tempo, il simbolo stesso della scienza medica asservita alla follia nazista, per quello che fece certo, ma soprattutto per quello che rappresentò.

Il film lo ritrae durante la latitanza, con continui salti avanti e indietro tra gli anni immediatamente successivi alla fine della guerra e la sua morte, avvenuta per cause naturali nel 1979. Anni in cui Mengele si sposa, torna clandestinamente e per breve tempo in Germania, riceve visite di parenti – tra cui il figlio Rolf –, ex commilitoni e persone impegnate a mantenere segreta la sua identità. Ma la sua non è una latitanza dorata: ha piuttosto le sembianze di una lunga agonia, di una disperata e infinita sconfitta di cui non riesce a capacitarsi. Per tutto il film strepita, urla, si lamenta della damnatio memoriae (in vita, anche se strutturalmente lui è già morto) che lo ha colpito e della politica globale – odia i comunisti, ma ancora di più gli americani, Adenauer e la nuova Germania federale.

Serebrennikov compone un biopic che è solo in apparenza una biografia. Il Mengele del suo film, come suggerisce il titolo stesso, è un fantasma: un’apparizione sinistra e inquietante la cui ingombrante figura riverbera sul presente. Ascoltare i suoi discorsi deliranti sul collettivismo, sulla tradizione nazionalista della Germania, sul valore patriarcale della famiglia – oltre alle sue posizioni apertamente razziste, misogine e al disprezzo di classe che ostenta – assume quasi un tono anacronistico: riferito all’oggi. A un mondo cioè in cui la memoria nazista è diventata quasi una maniera e in cui certi aspetti dell’ideologia nazionalsocialista vengono perfino riabilitati (le critiche alla messa al bando di AfD in Germania hanno il sapore del più aberrante revisionismo), mentre nazionalismi e populismi avanzano ovunque (il riferimento alla Russia putiniana, per il regista, sembra tutt’altro che casuale).

E la “scomparsa” di Mengele, in questo senso, assume le sembianze di una dissoluzione solo sul piano materiale, mentre sul piano simbolico è una sorta di fossilizzazione. Un tema esplicitato fin dall’incipit del film, quando vediamo alcuni studenti di medicina dell’Università di San Paolo del Brasile, che oggi, durante una lezione di anatomia, studiano lo scheletro umano utilizzando proprio le ossa di Mengele. Una didascalia finale ci informa che i resti del medico nazista furono ritrovati anni dopo la sua morte e identificati grazie ad analisi forensi e al test del DNA. Come se la dissoluzione del corpo lasciasse comunque una traccia tangibile: le ossa, la presenza ridotta a materia, che però continua a funzionare come un dispositivo della memoria – per chi vuole (o deve) fare i conti con quel fardello, e per chi invece vorrebbe rimuoverlo ma non può. Ed è proprio per questo che quelle ossa, oggi sono realmente a disposizione degli studenti di medicina.

Pur nell’eccessiva sovrabbondanza estetica che mette in campo e nell’utilizzo di una forma che, per certi versi, può risultare irricevibile – la sequenza ambientata dentro Auschwitz, l’unica a colori e costruita come un filmino amatoriale in 8mm è controversa, ambigua, disturbante e difficile da assimilare se non si accetta lo stile fuori dagli schemi del regista russo – Serebrennikov resta un autore capace di momenti di cinema straordinari. Come dimostrano la festa di matrimonio con Martha girata in piano sequenza o il ritorno del protagonista in Baviera, dove incontra il severissimo padre e i fratelli. Ma soprattutto un autore che sa riflettere con lucidità sulla memoria, intesa in senso politico, calata dentro il presente frastagliato e contraddittorio che viviamo. Ed è proprio per questo che, al netto delle sue derive stilistiche, quello di Serebrennikov è uno sguardo che non bisogna smettere di interrogare.