Concorso

Romería di Carla Simón

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Marina è cresciuta a Barcellona con la famiglia di sua madre, che è morta quando lei era ancora bambina. È l’estate del 2004, sta per iscriversi all’università per studiare cinema, ma per avere una borsa è necessario regolarizzare la posizione anagrafica, soprattutto quella con il ramo galiziano della sua ascendenza, con quegli zii e nonni paterni che non l’hanno mai conosciuta. È giunto il momento di attraversare il Paese e andare a Vigo. La famiglia di Fon, Alfonso, il padre a sua volta morto dodici anni prima, si rivela progressivamente molto più facoltosa di quanto la stessa Marina sembri immaginare, man mano che ci si avvicina al nucleo patriarcale, al nonno che si chiama ovviamente anche lui Alfonso, alla nonna che dorme in tailleur per essere sempre pronta all’estremo momento e bofonchia di una parente invitata al matrimonio di Filippo VI, che la tv trasmette proprio mentre la nipote le si presenta per la prima volta. “Hai visto Marina come somiglia a sua madre?”, “No”, risponde perentoria l’anziana donna, senza degnarla davvero di uno sguardo: non l’ha vista e non vuole vedere quella somiglianza che tutti fino a quel momento hanno notato (e verrà ulteriormente smentita di lì a poco), non vuole percepire il fantasma della persona che ai suoi occhi è l’unica colpevole, l’origine del processo di autodistruzione del figlio; o forse si vergogna di averla rimossa dalla propria esistenza fino a questo momento, e la sua presenza in carne e ossa è un ingombro insostenibile. Nascondere, omettere, negare, modificare le date e l’ordine degli eventi: Marina si rende conto presto che questi parenti della costa atlantica hanno strutturato una narrativa per difendere la propria posizione sociale, borghese, per ripararsi dallo stigma di un figlio tossico morto di aids; e forse proprio lì la giovane capisce che può a sua volta mettere a punto una versione tutta sua.

È un pellegrinaggio, come recita il titolo, anche se è un percorso che non ha nulla di religioso, quello della giovane protagonista di Romería; è un viaggio nella memoria rimossa, anche se, ironia della sorte, la meta è a poco più di 80 km da quella che è stata per secoli meta dei romei di tutta Europa, Santiago de Compostela. È un pellegrinaggio laico, ovviamente, anche per la stessa Carla Simón, che con questo nuovo film aggiunge il tassello più personale e duro al discorso cominciato con Estiu 1993, o se vogliamo, chiude un trittico che ha al centro un film meno direttamente biografico ma non per questo meno sentito, Alcarràs. Sicura quando si tratta di coordinare i momenti corali, soprattutto tratteggiare con la giusta misura storie di bambini e adolescenti, quelli che lei stessa definisce “attori naturali”, Simón costruisce la prima parte del film ponendo spesso Marina (Llúcia Garcia) al margine o al fondo dell’inquadratura, in posizione di attenta osservazione delle dinamiche tra queste persone che pur avendo un legame di sangue con lei sono un continente sconosciuto, come le è sconosciuto l’oceano, così diverso dal placido Mediterraneo al largo della costa catalana. Prenderà progressivamente confidenza con il centro della scena e con le acque dell’Atlantico.

Il fatto è che, al di là della pura e semplice autofiction, Carla Simón ha l’ambizione di raccontare il passaggio dall’osservazione passiva alla creazione artistica attiva, l’origine della propria vocazione al cinema, un’operazione che le riesce solo parzialmente. Se appunto la prima metà del film è esplorativo-conoscitiva e culmina nella consegna delle paghette da parte del vecchio Alfonso, che cerca di comprare Marina con una somma importante, la seconda, in cui la giovane si immagina catapultata nel passato, testimone impossibile, regista, della relazione tra i propri genitori, dovrebbe essere rappresentare il passaggio a una capacità di immaginare, nel senso di mettere in immagine. E ha assolutamente senso che questa creazione, pur incorniciata in un momento onirico, sia disseminata di elementi della propria esperienza recente. Il limite, però, oltre alla durata e allo scarto di registro, è formale: il terzo film di Simón è per certi versi un’occasione intaccata, compromessa dalle concessioni all’estetica “da laboratorio di talent”, un problema non secondario del cinema europeo (anche se di solito tocca le opere prime), evidente a partire dalla fotografia sempre un po’ pre-formattata di Hélène Louvart, così distante dal lavoro tonale e vernacolare di  Santiago Racaj per Estiu 1993 e di Daniela Cajías per Alcarràs, dove le immagini brulicavano, anche nei momenti più drammatici, di una vita e una verità che qui sembrano progressivamente perdersi, al punto che gli stessi inserti girati con il digitale mini-dv dei primi esperimenti di Marina si distinguono dalla luce un po’ caramellata del resto del girato quasi solo per un uso goffo, diegetico, dello zoom.

Andrà meglio la prossima volta; magari, esaurite le urgenze autobiografiche, nelle acque aperte del mare di storie da raccontare.