Concorso

Dossier 137 di Dominik Moll

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Parigi, dicembre 2008, nel pieno delle manifestazioni dei Gilets jaunes. Una famiglia arriva dalla provincia profonda di Saint-Dizier, con un po’ di consapevolezza sociale (perché ogni famiglia ne possiede una) e un po’ di voglia di visitare per la prima volta la capitale, che dista pochi chilometri ma un’eternità proletaria. Sfila, anzi si aggira, sugli Champs-Élysées, non per shopping ma come si potrebbe fare per una vittoria della Francia ai Mondiali, si perde, si scompone, e due ragazzi incontrano una pattuglia della BRI, la Brigade de recherche et d’intervention, forza d’intervento della Police Judiciaire, specializzata in terrorismo e crimine organizzato, gli eroi del Bataclan. Partono due colpi di flash-ball, i famigerati proiettili di gomma che scatenarono la rivolta nelle banlieu dell’anno successivo, a Montreuil nel 2009, un ragazzo rimane a terra, l’altro verrà arrestato poco dopo. La madre della vittima si reca in un ufficio dell’IGPN, l’Inspection général de la police nationale, per depositare una denuncia raccolta dall’ufficiale Stéphanie Marchana: è il dossier 137.

Dominik Moll, regista di genere e di polar (La notte del 12) non sceglie la via incandescente degli infernal affairs, ma congela il racconto nella forma di gestione burocratica di una police de police che deve valutare (nel procedimento indiziario), molto prima di giudicare (nel processo), il crimine sociale per eccellenza della contemporaneità: l’abuso di potere e violenza delle forze dell’ordine. E lo fa prendendo su di sé lo sguardo, l’azione e il comportamento della sua protagonista, che è una cacciatrice della verità suo malgrado: avrebbe preferito rimanere alla narcotici, ma il divorzio da un collega glielo ha impedito. Per dividersi i tempi (tecnicamente: gli orari di servizio) della gestione del figlio, ha dovuto scendere a compromessi, patteggiare, e si è trovata lì, dalla parte più giusta collettivamente ma più difficile da esercitare sul piano personale, a controllare i controllori. Ibrida, senza essere ambigua, come il lavoro di Moll sui generi, sospeso tra poliziesco e dramma sociale, anche se per i francesi (tradizione filmica e pubblico) forse tra i due non c’è tanta differenza, anche negli anni ‘2000, come lo sarebbe stato in Italia negli anni ’60 e ’70.

Perfettamente regolato in scrittura degli eventi e delle immagini, senza il calore emotivo del banlieu cinéma, assorbe in pieno l’iterazione del processo investigativo, la sua fredda regolarità, la sua ripetizione necessaria, con alcune soluzioni potenti per semplicità: la voice over che interpreta la sequenza di mail per avviare la pratica, gli interrogatori dei responsabili delle pattuglie presenti sul luogo dell’incidente, la re-visione del filmato che stabilisce la colpevolezza. Di fronte all’emergenza della realtà (le manifestazioni spontanee di coscienza civile), la politica sperimenta la propria incapacità di reazione (l’appello del governo all’intervento di tutte le forme di istituzione poliziesca, il recupero delle attrezzature da Decathlon), e può contare soltanto sulla propria coscienza à rebours, sulla possibilità di vedere e rivedere le immagini. Anche in un momento storico in cui ogni traccia potrebbe essere falsa, e un found footage potrebbe rivelarsi un deep fake.

Il tema etico è chiaro: il problema non è stabilire se il singolo abbia sbagliato, ma se il sistema sia in grado di ammetterlo, riconoscerlo, anche prima di giudicarlo e correggerlo. Non c’è speranza, perché un cavillo giudiziario produce una lancinante aporia: se due uomini sparano ma non si riesce a stabilire chi è andato a segno, allora nessuno dei due può dirsi colpevole. È il paradosso del plotone di esecuzione.

Ha ragione la madre che lamenta di non avere giustizia, come ha ragione la femme de chambre dell’hotel a cinque stelle che ha filmato tutto ma non crede nel potere della sua immagine probante: il potere cercherà di preservarsi, nascondendo. Ma è lo stesso potere che evita a Stéphanie un’indagine interna per aver taciuto i suoi legami di prossimità residenziale con la famiglia che denuncia: venire tutti dallo stesso posto, per caso, senza aver condiviso nulla.

È anche un film de famille: per cercare la verità Stéphanie deve sottrarre tempo a un figlio, due genitori anziani, un gatto ritrovato dietro una grata. E quella stesa verità la contratta con l’ex marito rancoroso e la sua nuova compagna, ancora nell’impossibilità di negoziare il personale e il collettivo, la necessità e la Legge. Ha tante tenute (come vestiario e tenuta del sé) Stephanie: quella per lavorare, quella per stare a casa, quella per giocare a bowling con i colleghi, e in un’unica scena la divisa.

E non le sa tenere insieme.